Commento al 3° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale

Brina sui vetri; uniti
sempre e sempre in disparte
gl’infermi; e sopra i tavoli
i lunghi soliloqui sulle carte.

Fu il tuo esilio. Ripenso
anche al mio, alla mattina
quando udii tra gli scogli crepitare
la bomba ballerina.

E durarono a lungo i notturni giuochi
di Bengala: come in una festa.

E’ scorsa un’ala rude, t’ha sfiorato le mani,
ma invano: la tua carta non è questa.

Se abbiamo potuto presumere che l’incipit del mottetto precedente facesse riferimento a un periodo di malattia, e se possiamo affermare che la protagonista di quella lirica e di questa sono la stessa persona, è perché le due poesie si incastrano l’una con l’altra.
La loro posizione contigua lo conferma, sebbene ciò non significhi che nella trama dei “Mottetti” il terzo componimento venga davvero dopo il secondo. Anzi, risulta proprio il contrario.
Lei, in questi due “Mottetti”, nonostante il tentativo un poco ingenuo attuato da Montale di non renderla riconoscibile, la possiamo indicare con certezza nella (si dice bellissima) Maria Rosa Solari. La quale evidentemente prima ha dovuto soggiornare nella clinica svizzera per tubercolotici di Leysin presso il lago Lemano, come si ricostruisce dalla sua biografia, e dopo ha potuto finalmente fare dono più o meno volontario della sua battaglia vinta contro la malattia, sotto forma di immaginario trofeo che spronasse il poeta ad imitarla e a vincere così la sua personale battaglia sul, se vogliamo dirla in maniera alquanto generica, male di vivere.Possiamo dunque considerare il primo verso un flash back che attestando l’inversione, ci porta all’interno della clinica. Poche parole. Semplici. Forti.
La brina con il freddo appanna i vetri come fossero raggiunti anche da fuori da un unico respiro malato, e sembra isolare ancora di più gli ospiti. “Uniti / sempre e sempre in disparte” dice Montale con un ossimoro, e trova un’immagine straordinaria per presentarceli in questa solitudine compatta: il loro tempo trascorso, in una reciproca presenza estranea, a confrontarsi col responso delle carte nel gioco triste del “Solitario” nel quale qualcuno cerca e insieme teme il futuro che l’aspetta.  
Quello fu l’esilio dell’amata; che a  Montale richiama il suo, tra le rupi della Valmorbia, della guerra, solo accennata per contrasto, con lo scoppio delle bombe a mano (dove “bomba” è in sineddoche) del tipo “ballerina” (il metallo era foderato in modo che faceva pensare al vestito di una ballerina, e i soldati perciò la chiamavano in questo modo).
Il grottesco di quest’idea così colorata e leggera, come di chi ride perché ha esaurito l’assurdo, continua nei fuochi artificiali delle scie luminose dei Bengala. Ed esplicitamente:”come in una festa”.

Per rinforzare il paragone, ecco il durare a lungo dei notturni giuochi fare il paio con i lunghi soliloqui sulle carte (da gioco).
Ora lo sappiamo: due esili: la malattia, la guerra. La prima vissuta nel silenzio, la seconda nel fragore.
Nell’uno e nell’altro, l’angelo sterminatore è passato oltre.
E poi: “Ti ha sfiorato le mani”.
E’ con le mani che si procede nel gioco; che una dopo l’altra si sistemano le colonne delle carte.
E’ con le mani che se ne pésca una e la si volta per scoprire se accorda o scompagna.
“La tua carta non è questa”.
E tuttavia gli ultimi due sono versi che dicendo dello scampato pericolo, non gioiscono, non se ne compiacciono, non trasmettono sollievo.
A causa di “invano”. Termine teoricamente neutro, in quanto a fallire, qualunque sia il contesto, può essere sia l’ “eroe” che l’ “antagonista” (in questo caso “l’ala rude”), ma termine per consuetudine usato in contesti negativi; perciò qui, anche se indica che non vi è stata rapina (l’ala ce la immaginiamo di un rapace, non certo di un angelo) lascia lo stesso traccia della sua connotazione.
E a causa di “scorsa”. Un participio che per la sua radice induce, al di là del dato oggettivo, in modo impercettibile e tuttavia determinante a enfatizzare la presenza residua dell’aria smossa da quell’ala nera, perché richiama più l’idea del turbamento per il pericolo corso piuttosto che quella di un rischio ormai passato, in Valmorbia dove era stato lui, e in sanatorio dove era lei, e che al passato appartiene.
In fondo un unico esilio ove lottare per cose diverse ma ugualmente insidiose, rende più prossimi gli affetti di chi, separato, è suo malgrado inaccessibile. 
“Brina sui vetri; uniti / sempre e sempre in disparte”.

FULVIO BALDOINO

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One thought on “Commento al 3° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale”

  1. Anche in questa terza breve composizione che leggiamo nella sezione delle “Occasioni”, il secondo libro (o meglio “secondo tempo” ) dell’opera poetica montaliana denominata “Mottetti” , così accuratamente analizzata dal prof. Baldoino, il poeta, più che all’eventuale lettore, parla a se stesso, di se stesso e con se stesso nei versi di varia lunghezza di questa breve composizione, sembra quasi la trascrizione stenografica di ricordi da due “esili”: quello della donna stilnovisticamente amata come colei che sola ha il potere di salvare il poeta dell’angoscia esistenziale, e del suo, spedito in quanto allievo ufficiale in Vallarsa durante la prima guerra mondiale. Un esilio, il suo, dunque, non in un sanatorio svizzero con la “Brina ai vetri”, ma in zona di guerra dove “…durarono a lungo i notturni giuochi / di Bengala: come in una festa”. Ovviamente i termini “giuochi” e “festa” non vanno presi alla lettera ma ma come analogie amarissime. Gli ultimi due versi del terzo Mottetto, come opportunamente osserva in prof Baldoino, sono quelli che rivelano il senso di tutti gli altri: così nell’esilio svizzero dell’amata come in quello tra le rupi (gli scogli) di Valmorbia, “E’ scorsa un’ala dura, t’ha sfiorato le mani, / ma invano: la tua carta non è questa”. L’ ora del tempo che ha sfiorato l’amata e il poeta soldato non era l’ultima. L’ala rude è andata oltre; scampato pericolo? In quell'”occasione,” sì.

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