Commento al 2° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale

Molti anni, e uno più duro sopra il lago
straniero su cui ardono i tramonti.
Poi scendesti dai monti a riportarmi
San Giorgio e il Drago.

Imprimerli potessi sul palvese
che s’agita alla frusta del grecale
in cuore… E per te scendere in un gorgo
di fedeltà immortale.

Chi trovasse questa lirica mancante della virgola tra le parole “fedeltà” e “immortale”, deve essere messo sull’avviso che sebbene persino le edizioni contemporanee più valide la inseriscano, in realtà è stata introdotta per errore dalla 9^ edizione del 1960, e poi mantenuta fino a farle acquisire una sorta di diritto per “uso capione” di non essere eliminata.
Ma qui si preferisce la versione originale. A maggior ragione in una composizione così breve, dove giocoforza ogni particolare assume un’importanza inversamente proporzionale all’estensione del testo.
La prima strofa, di tre endecasillabi e un quinario, pur improntata a fornirci delle coordinate spazio-temporali, ce le centèllina in termini così generali da rendere difficile ricavarne qualcosa che concretamente ci indirizzi ad un luogo e ad un tempo.
Riguardo quest’ultimo, gli unici dati che abbiamo è che si tratta di “molti anni”, e che l’ultimo di essi è stato il più difficile.
Del luogo sappiamo che è nei pressi di un lago, e che è lontano dall’io lirico, o quantomeno che a lui non è familiare (“straniero”).
Se Montale sente il bisogno di dire di quel lago che vi “ardono i tramonti”, cosa che prosaicamente facciamo notare avrebbe potuto dire di tutti i laghi, è perché vuol suggerirci il senso di malinconia che prova indotto dalle acque (proprio quelle presso cui sta la sua donna, non altre) nelle quali si specchia la fiamma aranciata del sole mentre segna il morire del giorno, e perciò ìndice del trascorrere del tempo e del persistere della lontananza nell’ “ora che volge il disio”.
Lei, l’amata, se ne sarebbe finalmente allontanata per poi giungere, scendendo dai monti, a riportare al poeta “San Giorgio e il Drago”.
E siccome “Poi scendesti dai monti a riportarmi / San Giorgio e il Drago” risultano a nostro avviso i versi-fulcro del mottetto, è opportuno soffermarvisi un poco di più, anche per cercare di dipanare almeno in parte l’episodio.
Ad esemplificare: per alcuni la donna sarebbe apparsa al poeta gonfaloniera di San Giorgio (in una visione? in un sogno?).
Ma bisogna essere cauti, perché troppo spesso ci si salva con l’onirico o l’immaginario per ovviare al compito arduo e faticoso di far rientrare nel reale gli elementi di una creazione artistica di cui non vengono forniti riferimenti chiari. 
Una cosa, però, concretamente e senza allegarvi troppi dubbi, San Giorgio e il Drago stanno a suggerirci, pur non escludendo in aggiunta altri suggerimenti maggiormente improntati all’astratto o all’allegorico: una città: Genova.
E’ dai Genovesi che, secondo la leggenda, dopo esser loro apparso con svariate insegne crociate (cosa per noi non secondaria avendo il termine “palvese” due significati: di scudo e di sostantivo collettivo ad indicare dei drappi d’appartenenza) per aiutarli a far capitolare la città fortificata di Antiochia, iniziò ad essere festeggiato e venerato. 
Non patrono della città come credono i più, e tuttavia suo simbolo, difensore e paladino.
E’ allora difficile sia un altro luogo diverso da questo quello di cui il poeta ci dice, anche perché nel primo verso della seconda strofa si nomina proprio il palvese, ovvero, in senso stretto, lo scudo; ma qui, poiché “si agita alla frusta del grecale”, in senso lato anche stendardo e icona, su cui la lotta tra Drago e Santo (tra Bene e Male) è raffigurata.
In definitiva (e comunque sempre in forma condizionale), la donna amata lo riporta (lo riconduce) con l’ammaestramento del suo rigore morale (ricordiamoci sempre dell’influenza su Montale della Beatrice dantesca) e fors’anche della sua lotta vittoriosa sulla malattia, a impegnarsi anch’egli nella giusta battaglia, alta o umile che sia, di personaggio o persona, che ogni uomo quotidianamente dovrebbe combattere, e tanto più se desidera non derogare dalla sua dignità.
En passant: le “Occasioni” vengono scritte tra il ’28 e il ’39, anni in cui il rigore etico-politico poteva costare caro…
Scendendo dai monti verso il mare, tacitamente lei gli prospetta una battaglia che il poeta può forse riprendere a combattere (dopo averla interrotta frenato dalla scoperta della vanità dell’esistere e dai trucchi della Storia), e per la quale San Giorgio (i valori e la determinazione che rappresenta) gli sarebbe di conforto.
Se questa voglia si ravviva, contestualmente potrebbe aprirsi un piccolo spiraglio nella muraglia che costringe a restare dalla parte dove tutto ciò che possiamo sapere è “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Il postulato è che la lotta, il coinvolgimento nella vita, è possibile solamente se si riesce a distinguere il Bene dal Male. 
Al di là del suo scendere verso di lui, in modo più diretto la donna gli porta la sua impronta exemplata nell’insegna di San Giorgio.
In altre parole, lei è il suo sprone e la sua difesa, e glielo “dice” mostrandogli un metaforico scudo in cui San Giorgio che uccide il Drago è quello che lei ha tenuto a mente per non arrendersi alla malattia e alla temperie dei tempi; è il suggerimento, iconico, affinché la imiti e guarisca così dalla sua malattia dell’anima. “In hoc signo vinces”. 
La seconda strofa, di tre endecasillabi e un settenario, riguarda il paesaggio interiore.
Non più lo stemma araldico che sprona alla lotta del Bene contro il Male, a restituirgli l’immergersi nel fluire delle cose per vivere. Ecco, la donna scende in città ad offrirgli l’occasione di far proprio questo modo di sentire, di muoversi in un contesto in cui il prendere parte, il partecipare, ha di nuovo un senso.
Lui vorrebbe coglierla. Vorrebbe imprimerla nel palvese, ovvero nelle bandiere con le quali si proclamano gli ideali con cui diventa lecito credere ai sentimenti che si agitano insistenti nell’animo e altrettanto lecito diventa scegliere definitivamente tra il giusto e l’iniquo, tra la lancia del Santo e la bocca del Drago.
Ma i puntini di sospensione dopo “cuore…” tradiscono appunto un fallimento in agguato.
Sempre nel medesimo verso, il penultimo della poesia, viene ripreso al modo infinito, scendere, lo stesso verbo che c’è al terzo verso della prima strofa. E’ così che il poeta ci confessa che vorrebbe scendere, cioè permettersi il lusso di credere a qualcosa di assoluto; più specificamente alla fedeltà assoluta verso di lei, fingendo che l’assoluto esista.
Tuttavia, in coerenza col messaggio fondamentale delle “Occasioni”, prevede che vi dovrà rinunciare: sa di non riuscire a smentirsi.
Il suo dramma dunque non sta tanto nel perdere anche questa occasione, ma nell’impedirsi di coglierla.
Con onestà egli non può fingere un’armonia del mondo quando non è certo cosa il mondo sia e se valga la pena

FULVIO BALDOINO

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One thought on “Commento al 2° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale”

  1. Il prof. Baldoino ci offre qui un’altra preziosa “occasione” di lettura non superficiale ma profonda di un testo poetico montaliano il cui ermetismo sembra chiudere la breve composizione in se stessa ed escludere la possibilità stessa che il lettore possa superare il livello letterale e formale di questo arduo mottetto. Insomma è come se il poeta parlasse solo a se stesso lasciando il lettore fuori dalla porta del suo io lirico senza curarsi di fornirgli una chiave d’accesso, cioè di lettura. Per questo è tanto più meritoria l’interpretazione puntuale non tanto del significato delle “figure” che il poeta ci presenta avulse da qualsiasi contesto realistico-descrittivo ma del senso sotteso a questo mottetto, che è quello della vittoria di San Giorgio sul drago, cioè del bene sul male, della vita sulla morte, e anche della salute sula malattia. Questa e la “morale” che la donna amata “riporta” al disincantato poeta, che tuttavia risponde con un “potessi”. Esattamente come noi disincantati lettori.

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