Commento al 19° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale
La canna che dispiuma
mollemente il suo rosso
flabello a primavera;
la rèdola nel fosso, su la nera
correntìa sorvolata di libellule;
e il cane trafelato che rincasa
col suo fardello in bocca,
oggi qui non mi tocca riconoscere;
ma là dove il riverbero più cuoce
e il nuvolo s’abbassa, oltre le sue
pupille ormai remote, solo due
fasci di luce in croce.
E il tempo passa.
L’incipit dato dalla nominazione di un oggetto, con relativa omissione del verbo principale della frase, nei Mottetti è così frequente che rientra tra le caratteristiche distintive di questa sezione delle “Occasioni”.
Su 20 liriche addirittura 8, oltre questa, ne sono interessate: “Molti anni…”; “Brina sui vetri…”, “Addii, fischi nel buio…”, “Ecco il segno…”, “Il ramarro…”,”La gondola…”, “Al primo chiaro…”, “La rana…”.
In questo 19° Mottetto, è facile lasciarsi fuorviare dallo stacco con la seconda strofa e perciò non realizzare che “oggi qui non mi tocca riconoscere” si riferisce a canna, rèdola e cane.
Compare un unico punto fermo nel componimento, a chiudere un discorso che ha detto quello che doveva dire e attende il giudizio, canonicamente tranchant nei Mottetti, dell’ultimo verso, il quale non per nulla segna la sua differenza tonica da tutto il resto anche con l’interposizione di uno spazio bianco a sostituire un virtuale antecedente semiverso.
Ciò che “oggi qui non mi tocca riconoscere” è un riassunto di tre flashes-circostanza.
Nel secondo di essi, non affatto scontata la pronuncia con la “e” aperta di “rèdola”, che infatti viene segnalata tramite l’accento grave, mentre “correntìa” nel verso dopo è riportata con l’accento, ma questa volta per una ragione di ictus, non di pronuncia.
Entrambe sono parole di registro letterario, raro e ricercato, per cui è opportuno chiarire che la prima indica il tracciato di un sentiero e la seconda la corrente d’acqua laddove si fa più intensa.
I richiami sono svariati, di natura rimica e non solo.
Ne citiamo alcuni tra i tanti atti a intrecciare un ordito che metta insieme parti in apparenza estranee l’una all’altra, magari facendole cozzare: primavera con nera, canna con cane, fardello con libellule e flabello, abbassa con passa, rosso con nero e con fosso, cuoce con croce…; e pure le sottolineature ottenute mediante i tanti enjambements.
Il tutto per creare quei legami che la presenza di un numero piuttosto ridotto di rime (strettamente intese) relative a solo tre coppie di versi, sarebbero risultati troppo labili.
I tre ferma-immagine sono tutti attraversati da una pena crucciata: la canna perde il suo pennacchio, e proprio quando a primavera tutto fiorisce; la rèdola subisce lo smacco, giù nel fosso e affiancata dalla nera correntìa, di essere sorvolata dalle libellule (delle quali possiamo dire agganciando l’assist lessicale di Montale, che libere e belle la dominano dall’alto); il cane è trafelato, e, se anche il fardello che ha tra i denti fosse il frutto della caccia, sarebbe un frutto in cui la fatica per la caccia supera la soddisfazione per la cacciagione.
Se il bilancio di un simile elenco è in perdita, più che per il nocumento rappresentato dai suoi singoli elementi, è per il collante che tutti li lega: “E il tempo passa”. Che, novità più antica del mondo, viene percepita nella sua drammaticità solo in certe…occasioni, ovvero per la profondità che è loro conferita, nella fattispecie di questa lirica, dalla aleggiante impalpabile presenza-assenza della donna amata.
A questo punto ci aspetteremmo che il poeta ne traesse le conclusioni, un po’ come aveva fatto in “Spesso il male di vivere…” per appunto riproporci la sua visione esistenziale.
Invece no. C’è la materia e c’è l’occasione; ma non è il caso.
Non è questo che oggi e qui “mi tocca riconoscere”.
E “riconoscere” per Montale è sempre, platonicamente, il vero conoscere.
Il breve elenco evocato ha ragion d’essere per valorizzare col confronto l’importanza di ciò che sta per essere rivelato, pallido se fosse presentato sciolto dal sostrato del malessere del mondo.
Come dire: – Non crediate: non mi smentisco. So riconoscere il male, i suoi mille volti, i mille abbattimenti che produce. Ma l’urgenza dello sconforto nel presente mi porta in un’altra dimensione, in un’altro luogo, “là dove il riverbero più cuoce / e il nuvolo s’abbassa”.
Brano poetico, questo, che è opportuno chiarire tramite una lettura a cui aggiungiamo, per renderla più fluida e meno ostica e giusto per il tempo della decodificazione, la parole sottintese (che ovviamente ammettono dei sinonimi): “là dove il riverbero più cuoce / e il nuvolo s’abbassa, oltre le sue pupille / ormai remote, [ciò che invece riconosco sono] solo due / fasci di luce in croce.
Anche il sostantivo “nuvolo” e l’avverbio “oltre” necessitano di una precisazione.
“Nuvolo” è in effetti un termine elevato e raro rispetto al più consueto “nuvola”, ma lo tutela da ogni sospetto di affettazione il permettere all’ultimo accento, in un componimento costituito per la maggior parte da settenari ed endecasillabi, di cadere in decima.
“Oltre” non deve essere inteso come “in aggiunta alle sue…”, ma come “al di là delle sue…” poiché le pupille di lei sono “ormai remote”, lontane nel tempo e nello spazio.
Pupille che hanno lasciato un segno indelebile.
Due occhi: due fasci di luce in croce (e qui ritorna il tema della donna-angelo) che dimostrano come anche nell’assenza ci può essere presenza. Fenomeno salutare? Angosciante? Dipende.
Viene alla mente la pagina straordinaria de “Il marchese di Roccaverdina” nel romanzo di Luigi Capuana, in cui il protagonista, Antonio Schiraldi, dopo aver rimosso (scegliamo appositamente questo vocabolo di ascendenza freudiana…) il Crocifisso da una stanza dato il disagio insopportabile per quella presenza che sembrava interrogarlo sui suoi delitti, resta però sconvolto quando una mattina gli capita di rientrarvi perché:
“Sulla parete ingiallita dal tempo, lo spazio coperto dalla croce e dal Cristo avvolto nel lenzuolo aveva conservato intatto il colore primitivo, e la impronta dei tre bracci della croce e del corpo del Cristo era rimasta così netta, così precisa, da sembrare segnata a contorni sul giallo della parete dall’abile mano di un pittore che non aveva potuto svilupparla e dipingerla”.
Anche in questo elaborato commento del prof. Baldoino al testo del diciannovesimo Mottetto montaliano scopriamo i significati sottesi alla sequenza delle immagini che il poeta fa scorrere sotto i nostri occhi “oggi qui”, che tuttavia non sono quelle che gli “tocca riconoscere”, mentre vorrebbe riconoscere quelle che scorrono sotto gli occhi della donna amata, che ora si trova in quell’altrove “dove il riverbero più cuoce / e il nuvolo si abbassa”; ma “oltre le sue / pupille ormai remote” rimangono “solo due / fasci di luce in croce”, uniche tracce del passaggio della donna angelo su questa terra. Scrive Baldoino: “Due occhi, due fasci di luce in croce (e qui ritorna il tema della donna angelo) che dimostrano come nell’assenza ci può essere presenza”. Non basta rimuovere un oggetto dal suo prprio luogo per cancellarne la traccia. E qui Baldoino cita un episodio del “Marchese di Roccaverdina” in cui il protagonista schiacciato dai rimorsi, dopo aver rimosso un crocifisso da una stanza si accorge che ne è rimasta l’impronta sulla parete. “Il tempo passa”, ma le sue tracce restano, anche se invisibili.