Commento al 17° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale
La rana, prima a ritentar la corda
dallo stagno che affossa
giunchi e nubi, stormire dei carrubi
conserti dove spenge le sue fiaccole
un sole senza caldo, tardo ai fiori
ronzìo di coleotteri che suggono
ancora linfe, ultimi suoni, avara
vita della campagna. Con un soffio
l’ora s’estingue: un cielo di lavagna
si prepara a un irrompere di scarni
cavalli, alle scintille degli zoccoli.
C’è solo un mottetto che in modo esplicito o criptico, non fa direttamente cenno ad Irma: questo.
E’ una lirica di tutti endecasillabi (escluso il settenario del 2° verso). Tra di essi, tre sono sdruccioli. Versi, cioè, non rari in Montale. Una rimalmezzo: nubi-carrubi, e un richiamo tra “avara” e “prepara”, rispettivamente in 7° e 10° verso, e tra campagna e lavagna, in 8° e 9°.
Notevole anche il richiamo tra “fiacCOLE” e “COLEotteri”, e tra “ole” sempre di fiaccole con “ole” di sole.
Da segnalare la contrapposizione a metà verso, tra cALDO e tARDO, scritti in successione e separati solo da una virgola, nonché l’anagramma di “teri” di coleotTERI, con “erti” di consERTI, introdotto dal verso d’attacco e sempre per anagramma, dalla prima parte di “RITEntar”.
Tra questi pochi rilievi formali, ne spicca uno, di gran rilevanza per ricaduta concettuale: l’aver scelto la parola “fiaccole” che prepara il semiverso successivo: “un sole senza caldo”. Ossia fiacco. Geniale escamotage per trasmettere una sensazione.
Il componimento nei primi 8 versi procede per accumulo descrittivo, e solo negli ultimi 3, a mo’ di clausola, viene espressionisticamente offerta (non data) in modo sentenzioso una motivazione per tale descrizione. Poiché non parla d’amore, come imporrebbe la tradizione del genere letterario del mottetto (nella fattispecie d’amore per Irma) risulta alquanto sui generis.
Tuttavia, a ben vedere, se non costruito sul sentimento, lo è sul risentimento per quello che impedisce l’attuarsi di questo amore con lei. E ciò lo riallinea in qualche modo di nuovo al canone.
La scopriamo poesia d’amore, dunque; ma solo se la affrontiamo secondo un approccio intertestuale, che la traguardi relazionandola agli altri Mottetti.
Non è infatti certo all’interno di essa che abbiamo i dati per capire che quella del poeta è una lamentazione e insieme una premonizione, cioè un’apocalisse.
Fuori di antonomasia, dell’ultimo libro del Nuovo Testamento dobbiamo davvero parlare
per il riferimento ai quattro cavalieri dell’Apocalisse (Ap 6, 1-8) che “l’irrompere di scarni cavalli” e le “scintille degli zoccoli” richiama. E’ giunta la fine dei tempi (“Con un soffio/ l’ora s’estingue”), sciagura storica ed esistenziale. Ma anche sentimentale.
A seguito di una breve panoramica ideale, la miscela di tali componenti fa pensare allo spirito che pervade “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” come al suo (del 17° Mottetto) germano letterario più somigliante.
Veniamo alla descrizione.
La rana. Animale del fango, e in quanto tale, in certo modo (come l’anguilla della omonima poesia e come l’anguilla “sparuta” dei Limoni”) amata. Rappresenta la lotta in un ambiente avverso. Ritenta (cerca insistentemente, senza arrendersi) la corda, ovvero il canto.
Detto in altro modo, rimette in moto le corde vocali e dà inizio al suo canto serotino. E insieme è come se effettivamente la rana nel far ciò tentasse di saltare una corda virtuale come tutti si tenta di fare quando ci si trova davanti ad un ostacolo.
Dire semplicemente “cantava” non poteva esprimere le due cose insieme. Con questa circonlocuzione vi si riesce.
Non una complicazione gratuita, ma un tentativo di rendere il senso della situazione che vuole essere espressa. La rana canta dal suo stagno che “affossa giunchi e nubi”, riflettendoli.
Essi si trovano sopra lo stagno, e quest’ultimo perciò ne cattura l’immagine e se ne appropria. Essendo che per definizione uno stagno è un fosso pieno d’acqua, li affossa.
E’ forse superfluo far osservare che lessicalmente “affossa” appartiene alla famiglia semantica di fossa, e che l’étimo proprio da essa deriva.
Non una notazione edificante, e tuttavia la sua negatività più che dalla mestizia che il termine richiama, è conseguenza del suo lato concettuale, del lemma che col suo significato va a preparare l’icastica clausola del Mottetto: anche le ultime voci verranno cancellate sotto gli zoccoli dei cavalli che sprigionano fuoco.
Tutto questo lo si può dire solo se si tiene ben presente come il “che” del 2° verso è pronome relativo di “stagno”, e non gli si attribuisca la stessa funzione riferendolo a “corda” come con una lettura superficiale potrebbe capitare di fare.
Perché è proprio la rana a ritentar per prima la corda? Perché, come si è sottolineato, è un animale che vive nel limo, nelle acque torbide, a volte prosciugate (“mezzo seccate”). Un animale umile, il cui canto è un gracidìo, un tentativo fallito di melodia. E la sua vita è ardua e grama. Un animale che non è disomogeneo inserire in una lista dove stanno senza stonatura insieme vegetali ed animali: serpi, agavi, formiche, sterpi…per i quali la vita sopravvive alla vita.
E’ dal punto più basso che Montale vede e apprezza la testarda lotta per l ‘esistenza resistere allo stagno che tutto affossa.Dal limo e ab imo. E dunque anche i giunchi, poiché giunchi e nubi vi si specchiano, ecco, vengono affossati.
Dalle cose molto in alto che sembrerebbero sovrastare come le nuvole, a quelle che addirittura hanno radici nella pozza d’acqua e con le fronde vi si specchiano, tutte (si dicono gli estremi per dire anche ciò che vi è contenuto) appiattite e catturate dalla superficie limacciosa dello stagno.
“Con un soffio” dice il poeta, si estingue la già avara vita della campagna. Il tramonto lascia spazio all’imbrunire. Questo al cielo di lavagna della notte su cui, in contrasto con il silenzio che dovrebbe essere ancora più intenso, irromperanno “scarni cavalli”. I loro zoccoli, calpestando violentemente la terra, sprigioneranno scintille.
Cavalli vale anche per cavalieri, cioè soldati; carne da macello usata come strumento per dar fuoco al mondo.
Le fiacCOLE, ultime deboli fiamme del sole, si spengono e cedono alle prime scintille degli zocCOLI, foriere di sciagure imminenti e di distruzione.
A tutto ciò, non è forse estranea un’eco pascoliana del “Gelsomino notturno”.
In “tardo ai fiori / ronzìo di coleotteri che suggono / ancora linfe, ultimi suoni, avara / vita della campagna” si dice che si sta per perdere ciò che l’ “ape tardiva” trovando “già prese le celle” ha già perduto.
E’ uno strano Mottetto il 17°, come nota subito Baldoino nel suo fine e acuto commento: è l’unico che non fa riferimento a Irma, e difatti non vi troviamo il “tu” che caratterizza non solo i Mottetti. Qui il Poeta si rivolge a tutti e a nessuno in particolare, o forse solo a se stesso. E’ come se ci trovassimo di fronte allo specchio di uno stagno che riflette tutto quello che gli passa davanti, in basso e in alto, “giunchi e nubi”. Dallo stagno gracida una rana, animale umile come l’anguilla cara al poeta, mentre un sole pallido e freddo “spenge le sue fiaccole”, i suoi ultimi bagliori prima di inabissarsi. Inutile girarci intorno: è una visione apocalittica da fine del mondo, intonata ai tempi oscuri che stiamo vivendo: presto irromperanno gli “scarni cavalli” e “i loro zoccoli, calpestando violentemente la terra, sprigioneranno scintille”. Tempi di guerra allora come ora. Allora come ora l’ “ape tardiva” pascoliana “trova già prese le celle” , come il poeta che ha perso anche il caro “tu” che lo teneva in vita.
Gentilissimo professore,
Leggo con grande interesse e piacere questi suoi commenti a Le Occasioni, che sono per me la prima introduzione alla raccolta di Montale.
Mi chiedevo se lei avesse prodotto analisi analoghe sugli Ossi di Seppia (che in alcuni punti restano per me ostici) o se conoscesse lavori introduttivi analoghi al suo.
Cordialmente
Luca Gualtieri