Commento al 14° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale
Infuria sale o grandine? Fa strage
di campanule, svelle la cedrina.
Un rintocco subacqueo s’avvicina,
quale tu lo destavi, e s’allontana.
La pianola degl’inferi da sé
accelera i registri, sale nelle
sfere del gelo… – brilla come te
quando fingevi col tuo trillo d’aria
Lakmé nell’Aria delle Campanelle.
Una rima baciata al secondo e terzo verso della prima strofa.
Nella seconda strofa, quasi-rima tra primo e quarto verso (ma foneticamente vera e propria rima perché trattandosi di due monosillabi, l’esigenza di identità, con l’accento che immediatamente e solo si impone, scompare), e rima tra secondo e quinto.
Il termine “sale” utilizzato prima come sostantivo e poi come verbo.
Un solo enjambement, dopo “nelle”, al secondo verso della seconda strofa.
Il contrasto semantico di “s’avvicina” e “s’allontana” a fine verso di due versi immediatamente successivi.
La paronimia tra “Infuria” e “inferi”, e tra “campanule” e “Campanelle”.
L’allitterazione brilla-trillo.
Il verbo “fingevi” inteso nel suo antico significato di recitavi (cantando, e quindi modulando) oltreché di imitavi.
Questo dal punto di vista formale e metrico.
Un componimento, dunque, abbastanza lineare.
Tutt’altro vale per il contenuto.
Come possiamo aspettarci dalla lettura dei Mottetti precedenti, il tema è sempre quello dell’evocazione dell’Assente, suscitato da un’ “occasione” (un trigger, un aggancio, una coincidenza, un invito della Natura o degli eventi che innesca un’associazione di idee).
In questo caso è la strage delle campanule provocata dal temporale che infuria e che per contrasto richiama il “trillo d’aria”, una sorta di brezza gentile e triste, dato dalla voce di Irma che canta l’ “Aria delle Campanelle” imitando Lakmé nell’opera di Léo Delibes.
La presenza della cedrina è più funzionale: serve a fare rima baciata con “avvicina”.
Nel testo la grandine che sta cadendo lo fa con una tale forza che potrebbe avere gli stessi effetti che ha il sale, ovvero di disseccare definitivamente, come ad adempimento di una “Delenda Carthago” decretata dalla Natura. E comunque essa viene percepita come ritmo, in linea con l’attenzione particolare riservata dal poeta alla musica che, in questi Mottetti, nomen omen, in origine erano una forma di composizione musicale dei trovatori medioevali.
Montale li ha intitolati così, quindi, non solo per dire tradizione letteraria del Mottetto (composizione breve e con finale sentenzioso), ma anche tradizione musicale, ancora più antica e solo a un certo punto parallela.
Sta in questo una delle difficoltà a commentarli, perché, come si è visto per esempio per il Mottetto XIII, spesso è inevitabile travalicare, volenti o nolenti, finendo prima nell’extratestuale, e poi nell’extramaterico del campo musicale.
Limitatamente a quest’ultimo, la differenza tra XIII e XIV Mottetto sta nel fatto che nel XIII la musica fa parte della scenografia, visti i riferimenti fondamentali all’operetta, mentre qui è interpellata sotto forma di canto della donna-angelo.
>La prima grossa difficoltà che si incontra è capire cosa significhi il verso “Un rintocco subacqueo s’avvicina”.
E’ lo stesso poeta, nel suo Commento ai Mottetti, ad affermare, un po’ sornione ma senza compiacimento: “Il rintocco subacqueo: molto probabilmente la Cathedrale engloutie“, cioè uno dei preludi per pianoforte di Claude Debussy.
E a questo punto diventa d’obbligo vedere più precisamente di cosa si tratta.
Per farlo, citiamo da Montale e la musica: “Quel regno di fuochi fatui e cartapesta”, un brano della Tesi di Maria Silvia Assante: “Il brano fu ispirato, nel 1910, a Debussy da un antico mito Bretone: periodicamente, quando l’acqua è cristallina negli abissi marini, lì dove sorgeva la città di Ys, inghiottita dal mare al largo dell’isola Tristan per punire la malvagità dei suoi abitanti, è possibile scorgere una cattedrale sommersa e udire il suono sordo delle sue campane a severo monito.
La capacità narrativa della musica di Debussy qui è palese: il pianoforte mima i suoni in sordina della melodia che proviene dall’acqua, imita i rintocchi sordi delle campane, assecondando con la melodia, con un pianissimo che diventa sempre più forte, la risalita del suono dalle profondità del mare.
L’immagine è in perfetta analogia con quanto sta vivendo il poeta: il ricordo di lei [Irma – Clizia] è come il rintocco delle campane subacqueo, carico di un’epifania che sembra che stia lì lì per palesarsi, ‘s’avvicina’ ma sfugge dalle mani del poeta, ‘s’allontana’ “.
Musica equorea, che arriva dal profondo, condizionata dall’elemento in cui viaggia e perciò attutita e trattenuta, imprigionata ed espressa soprattutto nei toni bassi e soffocati dentro la superficie arrotondata di una bolla che sembra salire alla superficie custodendo le note di quel suono.
E Irma quel suono, “L’Aria delle Campanelle”, che nell’opera di Delibes viene cantata dalla protagonista Lakmé, lo desta e se ne fa interprete umana, anzi, sovrumana.
Ascoltandola il poeta ne fa il suono delle campane della cattedrale sommersa. Come un’ eco si avvicina e poi si allontana. Può essere sfiorata ma non colta.
La seconda difficoltà, invece, consiste nel capire cosa significhino i versi “La pianola degl’inferi da sé / accelera i registri, sale nelle / sfere del gelo…”.
Non esiste da parte di filologi e critici una interpretazione definitiva di essi. Solo tanti azzardi più o meno fondati.
Secondo la nostra interpretazione “inferi” vuol semplicemente dire “chi sta sotto”.
Vi sarebbe allora una pianola suonata da chi sta sotto (in terra) che aumenta il volume del suono e, con movimento opposto a quello della grandine che scende dalle sfere del cielo e del gelo e porta quest’ultimo in terra sotto forma di ghiaccio, sale. E il suo salire nelle sfere del gelo avrebbe l’effetto del sale (sostantivo) che lo scioglie.
A questo punto la pianola degl’inferi (in realtà, pare, un vecchio piano che lo stesso poeta nel testo Il lieve tintinnio di corallo confessa di avere posseduto, declassato a pianola probabilmente perché “dava un suono acido di spinetta”) assume un significato positivo, e “brilla come te / quando fingevi col tuo trillo d’aria / Lakmé nell’Aria delle Campanelle”. Dove “fingevi” è insieme “recitavi” e “facevi finta”.
Per cui, alla fine, si ha: quando cantavi l’Aria delle Campanelle facendo finta di essere Lakmé, la sventurata fanciulla indiana dell’opera di Léo Delibes, sortivi lo stesso effetto del suono delle campane (notare la serie campanule, campane, campanelle): davi conforto e dicevi che esiste ancora la bellezza (la poesia) nonostante le brutture del mondo (la città sommersa). Qualcosa da ciò che pare perduto per sempre, arriva, si fa sentire.
Come una voce che si diffonde in onde insieme sonore e fluide, e riesce a dare il segno.
Sebbene poi, fatalmente, si disperda: “s’avvicina”, “s’allontana”.