Commento al 13° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale
La gondola che scivola in un forte
bagliore di catrame e di papaveri,
la subdola canzone che s’alzava
da masse di cordame, l’alte porte
rinchiuse su di te e risa di maschere
che fuggivano a frotte –
una sera tra mille e la mia notte
è più profonda! S’agita laggiù
uno smorto groviglio che m’avviva
a stratti e mi fa eguale a quell’assorto
pescatore d’anguille dalla riva.
Premesso in generale che le incursioni di tipo biografico sono tanto più numerose e necessarie quanto più è alto il livello di ermetismo incontrato in un testo, e premesso altresì che il 13° mottetto è caratterizzato da un ermetismo decisamente marcato, precisiamo comunque che esso neanche seguendo questa linea di indagine potrebbe giungere a una decodificazione che ne garantisse la verità contenutistica, come dimostrato da diversi studi di diversi e seri studiosi di Montale, che avanzano ipotesi differenti, in poco o in tanto.
Una base di verità la possiamo però accertare con le parole dello stesso poeta che parzialmente ci illumina mettendoci su una strada sulla quale nessuno si sarebbe mai incamminato di propria iniziativa perché legata a fatti e circostanze personali che dal testo mai si potrebbero dedurre.
E’ vero che venendo nominata una gondola, il pensiero è immediatamente focalizzato su Venezia, e che di conseguenza si può cercare di risalire a quando e quanto Montale vi abbia soggiornato, ma mai immagineremmo che quella gondola era un elemento scenico in un teatro di Firenze per la recita dei “Racconti di Hoffmann”.
Infatti il titolo provvisorio di questo 13° Mottetto, come si può constatare sulla rivista Corrente del 28 febbraio del ’39, era La Venezia di Hoffmann – e la mia. Ecco la nota all’epoca stilata da Montale:
“[…] Il titolo di oggi, puramente possibile e indicativo, vuol essere il riflettore di un momento, un sottinteso e magari una chiave in più offerta al lettore (se pur ce ne sia bisogno). Il “subdolo” canto della prima poesia può essere la Canzone di Dapertutto, nel secondo atto dei Racconti di Hoffmann; ma il motivo della lirica non è di maniera. Dalla pura invenzione non mi riesce, purtroppo, ricavar nulla”.
Da lì possiamo allora partire per constatare che in effetti Montale era presente alla rappresentazione della suddetta operetta; all’interno della quale, a un certo punto della complicata vicenda degli amori del poeta Hoffmann, l’autore di essa, Jacques Offenbach, prevede sia cantata una canzone con cui lo stregone Dapertutto cerca di ingannare il protagonista.
Nel Mottetto, si è visto, viene apostrofata come subdola proprio perché lo scopo della canzone era quello dell’inganno.
Tutto ciò, e altro in seguito, costringe ad affermare che per una lettura critica di questo testo montaliano, è assolutamente indispensabile conoscere la trama dell’operetta dell’artista tedesco. Diversamente sia il 13° Mottetto, sia questo presente commento risulterebbero totalmente astrusi.
Senza dilungarci, possiamo dire che negli undici versi della lirica si struttura un gioco di specchi molto complesso in cui se non c’è esattamente corrispondenza biunivoca tra persone e personaggi e neppure tra ambiente e scenografia, c’è comunque una marcata vicinanza di atmosfera psicologica.
Il critico letterario P.V. Mengaldo mostra come il Mottetto si ispiri “a una rappresentazione dei Racconti di Hoffmann avvenuta nel corso del IV Maggio Musicale Fiorentino, precisamente nei giorni 11, 15 e 18 del 1938″.
Secondo lui “l’intera scena della prima parte della poesia è inconcepibile senza quella di una qualche esecuzione dell’opera, sovrapposta o meno a una situazione reale: musica come occasione”.
Gioco molto complesso, abbiamo detto, perché costruito sullo sdoppiamento di recitato e di vissuto; di identificazione del personaggio-poeta-Hoffmann e della persona-poeta-Montale; della Venezia di cartapesta e della Venezia d’acqua e canali.
Preso atto di ciò, non si è sicuri di ricomporre il quadro esatto pensato da Montale, ma si è quasi certi che basti a farci immaginare qualcosa di comunque coerente con esso, in termini di emozioni, sentimenti e significati.
Ed essi, nonostante vissuti evidentemente a Firenze, è nella logica delle cose che ci portino a Venezia, tal quale Montale quell’11 maggio fosse stato nella città lagunare; perché è là che egli torna con la memoria, stimolato appunto da una rappresentazione teatrale il cui IV atto vi è ambientato.
Ora però è necessaria una brevissima panoramica fenomenica, tenendo conto che l’ermetismo di questa lirica si lascia (parzialmente) sciogliere solo se si procede senza pretendere di assegnare schematicamente significati di volta in volta a ciò che riguarda l’operetta, la reale esperienza veneziana di Montale e la poiesis come commistione di entrambe che egli ne fa.
L’occasione è sempre innescata da situazioni concrete poi rese paradigmatiche e astratte attraverso il simbolo.
Recuperarle non è facile.
E’ questo, come si è già avuto modo di dire, che rende la poesia montaliana delle “Occasioni” ermetica.
Il poeta non se ne preoccupa. Anzi, il sospetto è che semmai una certa preoccupazione gli deriverebbe dal sapere che il suo innesco è esplicito, perché si rende conto che parrebbe al lettore sproporzionato nella portata del significato rispetto all’importanza poetica di cui egli lo carica.
Per i primi due versi del Mottetto ci soccorre una nota filologica mediante la quale siamo informati che nella prima stesura, al posto di “bagliore” si leggeva “riflessi”; e siccome a tali riflessi notturni la gondola scivola in mezzo, se ne deduce che il “bagliore di catrame e di papaveri” è quello prodotto dall’acqua resa nera (come il catrame) dal contrasto con le luci rosse (come i papaveri), in cui la accentuazione delle tinte è tale per il “forte / bagliore [riflesso]”.
Esso, verificandosi sull’acqua calma della laguna, è lucido, e perciò più definito e vivo.
Particolare non secondario, e lì dobbiamo rifarci all’aiuto extratestuale fornitoci dalla trama de I racconti di Hoffmann, troviamo nel IV atto, quello ambientato a Venezia, Hoffmann che dopo essersi impossessato della chiave della stanza di Giulietta per poterla condividere con lei (per riuscirci uccide il suo rivale in amore Schlemihl) si accorge prima che Giulietta, di cui è perdutamente innamorato, sta sopraggiungendo in gondola, e poi, amaramente, che gli preferirà un altro.
Continuando con il breve esame fenomenologico intrapreso, “l’alte porte / rinchiuse su di te”, come ha spiegato il Leporatti, sarebbero la versione astratta dei tentativi del poeta di convincere l’amata a lasciargli aperta la possibilità (la porta) di un discorso che lei voleva chiudere dopo la sua (di lui) confessione degli “impedimenti” a interrompere la relazione con Drusilla Tanzi (la Mosca);
ma, ancora più concretamente, la porta della stanza d’albergo del loro viaggio a Venezia del ’34 del quale si sa, dalle Lettere a Clizia, che non fu né sereno né indolore.
Quindi, nonostante dal Mottetto non sembri, porte rinchiuse (che è parecchio più forte di chiuse) da Irma dietro sé e per sua decisione.
Questa citazione dalla lettera spedita all’amata il 29 luglio 1935, può storicizzare i fatti:
“You looked furiously disapointed and deceived. I was at a loss – and frightened. I have been frightened all the summer. We had no dinner; late we went to Harris bar – and all was better. But you shut your room in my face”. Traduco solo l’ultima frase, la più importante per la linea interpretativa che stiamo seguendo:”Ma mi hai chiuso fuori della stanza”…!
Se da parte sua la filologa Rosanna Bettarini osserva (in Lettere 164 e 346) che può essere questo l’episodio “che riecheggia nell’ “alte porte / rinchiuse su di te” della tredicesima lirica dei Mottetti, Leporatti sottolinea come non ci sia dubbio che esso “rievocato più tardi anche in poesia (Due prose veneziane e Il mio cronometro svizzero aveva il vizio…), fu un passaggio cruciale della tempestosa relazione, quando il rapporto si incrina irreparabilmente e a cui il Mottetto in qualche modo non può non alludere”.
E tuttavia non è affatto da escludere che anche su questo preciso episodio non si intersechi una suggestione dell’operetta di Offenbach, poiché Giulietta, la protagonista, mentre canta “La gondola è alla riva / e l’ora dolce arriva / dei canti e degli amor” esce, come ancora ci dice il Leporatti, da una di quelle “ampie porte a volte ad arco” previste dalla didascalia iniziale del II atto (“l’alte porte / rinchiuse su di te”, appunto, del Mottetto).
Quasi automatico invece l’unico collegamento della prima strofa con la seconda, ovvero quello fra “masse di cordame” da cui si alza “la subdola canzone”, a rappresentare le trappole tese da Dapertutto, e lo “smorto groviglio”, ovvero la variante del “morto / viluppo di memorie” della lirica di apertura degli Ossi.
Per quel che concerne “risa di maschere / che fuggivano a frotte”, si può pensare tanto a una situazione vissuta con la presenza reale di maschere (a Venezia possibile anche in una festa o rappresentazione in giorni estranei al Carnevale, visto che la Brandeis in inverno era impegnata dall’insegnamento universitario negli States) quanto alla frequente allegoria montaliana degli uomini insulsi che vivono quotidianamente la loro mascherata.
Il poeta con la seconda strofa cambia registro e ci confessa che sente profonda la notte, perché è giù, nel profondo, anzi, laggiù, che s’agita “uno smorto groviglio che m’avviva / a stratti e mi fa eguale a quell’assorto / pescatore d’anguille dalla riva”.
“Smorto”, dunque, in ossimoro con “avviva”, all’interno di una frase che, in definitiva, riproduce il senso del “filo da disbrogliare” de I limoni.
Cercare di scioglierlo lo mette nelle medesime condizioni mentali del pescatore, concentrato perché dalla riva tenta di catturare un’anguilla fra quelle che si agitano insieme impazzite in una specie di pallone viscido, e perciò sfuggente.
E che si scuote le rare volte in cui gli sembra di esserci riuscito.
In questo gioco di specchi e di riflessi, di finzioni teatrali e di realtà vissuta, di inganni e di allusioni quasi misteriche ( “le alte porte”…”risa di maschere” … “una sera tra mille”…”la mia notte è più profonda” “laggiù” ) il prof. Baldoino montalianamente cerca di “disbrogliare” i fili di cui è intessuto, o meglio, filigranato il tredicesimo Mottetto, e lo fa seguendo le indicazioni del poeta stesso che in un suo scritto autobiografico del ’39 ricorda che il titolo provvisorio di questo Mottetto era “La Venezia di Hoffmann – e la mia”.Il riferimento è al quarto atto dell’operetta “I racconti di Hoffmann, di Jacques Hoffenbach ambientato, appunto, a Venezia, dove, come riassume Baldoino, il poeta “Hoffmann che, dopo essersi impadronito della chiave della stanza di Giulietta…si accorge prima che Giulietta, di cui è perdutamente innamorato, sta sopraggiungendo in gondola, e poi, amaramente, che gli preferisce un altro”. Non sarà un caso che gli amori del poeta Hoffmann finiscono tutti male. Il prof. Baldoino non manca di rilevare i temi montaliani presenti anche in questo Mottetto come “masse di cordame” e “uno smorto groviglio” e il “pescatore d’anguille dalla riva”. e l’occasione musicale di una canzone che richiama al poeta un momento triste della sua vita sentimentale, in questo caso legato alla città lagunare.
Caro Fulvio, hai giustamente colto la complessità del labirinto in cui ho dovuto muovermi per dare un’accettabile interpretazione del XIII Mottetto.
In realtà è ancora più complesso di così. Tuttavia, per non rischiare che il discorso risultasse troppo lambiccato, ho tralasciato di aggiungere un ulteriore corridoio, quello storico-politico, nel già troppo intricato labirinto.
Quando in un’altra occasione lo farò, bisognerà che i versi
La subdola canzone che s’alzava / da masse di cordame, l’alte porte / rinchiuse su di te e risa di maschere / che fuggivano a frotte.
vengano letti tenendo conto anche di questa prospettiva.