Commento al 10° Mottetto [da le “Occasioni”] di Eugenio Montale

Perché tardi? Nel pino lo scoiattolo
batte la coda a torcia sulla scorza.
La mezzaluna scende col suo picco
nel sole che la smorza. E’ giorno fatto.

A un soffio il pigro fumo trasalisce,
si difende nel punto in cui ti chiude.
Nulla finisce, o tutto, se tu fòlgore
lasci la nube.

Di rime vere e proprie non ne troviamo. Troviamo però il primo verso ipèrmetro per far rimare scoiattolo tre versi dopo con fatto; la rimalmezzo di scorza con smorza (al 2° e 4° verso) e di trasalisce con finisce (al 5° e al 7° verso).
Dopodiché individuiamo varie assonanze e consonanze. Per cui di certe sensazioni di solito create dalla rima, nell’immediato non ci accorgiamo, ma “lavorano” ugualmente sottotraccia, essendo che essa si serve validamente e volutamente di modalità vicarie.
La poesia inizia con una domanda:”Perché tardi?”, a dirci l’ansia dell’io lirico per l’apocalisse non ancora avvenuto della donna amata.
“E’ giorno fatto”. Cioè ormai tutto è uscito allo scoperto. Tranne lei, che ancora resta nascosta.
Il poeta non riesce a farsene una ragione. E quasi che pensandola potesse farle giungere la sua invocazione, la sprona parlandole dello scoiattolo che nel pino (lo vuole descrivere all’esterno della sua casa-cavità visto che nomina la scorza dell’albero, e tuttavia usa lo stesso la preposizione articolata “nel” per indicare che lo scoiattolo è in alto, nella parte della pianta coperta alla vista dalle mazzette aghifoglie) “batte la coda a torcia sulla scorza”.
A torcia perché è presumibilmente rossiccia e perché ribadisce il medesimo movimento che spazza da destra a sinistra e viceversa di chi cerca un oggetto con una torcia nel buio, ed esplora indirizzando il fascio di luce, per cui l’immagine conclusiva che si genera è quella della luce (il rosso, la torcia) e della fretta ansiosa (il battere la coda come espressione di nervosismo e di scansione del tempo che nello scarto metaforico passa senza che ancora la donna amata giunga).
E’ facile vedere dunque nel decimo Mottetto una marcata continuità con quello precedente, sottolineata anche dal ricorso a due animali, il ramarro in quello e lo scoiattolo in questo, per creare lo spannung necessario alla conclusione icastica e sentenziosa, tradizionale caratteristica della forma poetica del mottetto.
Tutto riprende il suo ruolo nell’avvicendarsi dei giorni, e come previsto anche la luna lascia la scena al sole: “E’ giorno fatto”. Un’espressione di tipo popolare che è un’esclamazione proposta senza punto esclamativo perché deve mantenere la sua assertività semplicemente constatativa.
Ma noi sentiamo che va a completarsi con il punto interrogativo dell’inizio. “Perché tardi?”.
Di cui la parafrasi: “Perché tardi dal momento che è giorno fatto? Quali ragioni hai per ancora indugiare all’appello con le cose che dopo la pausa della notte hanno ripreso a recitare la loro parte?”
Ed è altresì un’esortazione: “Presentati! Apparici!”.
Un invito che forse non cade nel vuoto.
Infatti “a un soffio il pigro fumo trasalisce”.
La residua nebbia del mattino, rappresentata in prosopopea nell’atto di difendersi, in realtà è prigione per difendere Clizia dalla tentazione di acconsentire al richiamo dell’io lirico e quindi di presentarsi al di qua del muro, di sporcarsi nel mondo fenomenico “degli automi”, le cui strade tutti percorriamo ignari.
Se Clizia accettasse, infatti, ci si troverebbe nell’imponderabile. Lo scenario che andrebbe ad aprirsi sarebbe quello della sorpresa che destabilizza, dello stupore (come meraviglia o paura) provocato dalla tessera anomala che irrompe e sconvolge il puzzle.
“Nulla finisce, o tutto, se tu fòlgore / lasci la nube”.
Il colore rosso che ci è stato proposto nel primo e secondo verso, viene riproposto ora.
Con “lampo” il poeta avrebbe potuto restare nell’endecasillabo e non spezzare il ritmo della lirica. Invece accetta la sfida di un verso ipèrmetro, e gli preferisce “fòlgore”. Perché?
E’ il modo con il quale riesce ad indurre quell’idea di fuoco, di calore e di luce che Clizia è per lui, e a coniugarla con l’idea di bellezza. Fòlgore: fulgòre.
Il passo successivo è di mettere insieme senza che si elidano, luce, calore e fuoco con algidità, ovvero il freddo benevolo del visiting angel che al fine di portare il suo messaggio attraversa “l’alte / nebulose”, e pur di farlo deve lacerarsi le ali e lasciarsi coprire il volto dal ghiaccio [12° Mottetto].
Nel labirinto dei richiami semantici il poeta pare così suggerirci le sole due parole in grado di amalgamare realmente gli opposti e permetterci di vedere in Clizia la fùlgida e àlgida donna della nube. 

FULVIO BALDOINO

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3 thoughts on “Commento al 10° Mottetto [da le “Occasioni”] di Eugenio Montale”

  1. E’ quasi incredibile la ricchezza di simboli e di analogie, di echi e di consonanze e assonanze, di richiami e di reminiscenze di altri luoghi montaliani che anche nel commento a questo breve mottetto, così chiuso nel giro dei suoi otto versi, il prof. Baldoino è riuscito a dipanare per mezzo della sua quasi rabdomantica facoltà interpretativa di questi ardui testi delle “Occasioni”. Anche in questo mottetto mi pare che il nucleo sia, come osserva appunto Baldoino, la tensione drammatica tra l’io lirico proteso nell’attesa dell’epifania della donna amata, che rimane nascosta nella sua “nube”, conforme alla sua natura ossimorica di “Brand” (fuoco) e di “Eis” (ghiaccio), contraddizione insanabile che solo il lampo, anzi la folgore / fulgore sprigionata dalla nube, è in grado di sciogliere. Un commento che si configura come un’altra originale lettura del testi poetico montaliano e, implicitamente, come un omaggio alla figura ideale di Clizia, da parte di un fedele e sensibile lettore fornito delle antenne giuste delle quali sono forniti i poeti, i soli in grado di “intus-legere” gli altri poeti. E Baldoino è uno di questi.

  2. Caro Fulvio, non ti nascondo che decodificare i Mottetti non mi è sempre così immediato, e a volte mi serve parecchio tempo per riuscire a “ricondurre alla ragione” pezzi che sembrano andarsene ognuno per conto proprio.
    Avevo previsto di commentare tutte e venti le liriche di questa sezione delle “Occasioni”. Ne ho affrontate dieci. Altre dieci mi aspettano, e non sono poche… Ma dopo giudizi incoraggianti come il tuo, che conoscendoti so sinceri, vedo come istintivamente più che pensare che ne manchi la metà, tendo a pensare che metà l’ho già fatta…

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