CINEMA: Itaker – Vietato agli Italiani

 
RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
Itaker – Vietato agli Italiani
Il film prossimamente su TV digitale

RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
Itaker – Vietato agli Italiani
Il film prossimamente su TV digitale
 

 Titolo Originale: ITAKER – VIETATO AGLI ITALIANI

Regia: Toni Trupia
Interpreti: Francesco Scianna, Michele Placido, Monica Barladeanu, Tiziano Talarico, Angela Demattè, Alessio Della Costa, Milena Lunelli, Gelsomina Bassetti
Durata: h 1.38
Nazionalità: Italia, Romania 2012
Genere: drammatico
Al cinema nel Novembre 2012
Altri film di Toni Trupia: Incidenti 2004 (documentario), L’uomo giusto 2007 (drammatico)
Recensione di Biagio Giordano
Prossimamente in TV digitale 

 Itaker – Vietato agli italiani traccia un percorso narrativo dal sapore prosaico strettamente storicistico che costeggia in alcuni tratti la poesia della malinconia per vie originali, portandoci, animati da una  curiosità sempre più coinvolgente, da un paesino del trentino, nel 1962, alla complessa  Germania industriale di quel periodo.

 


Il regista Trupia  si sofferma in particolare sugli ambienti più da sopravvivenza che vedono protagonisti nelle baracche, annesse alle fabbriche, lavoratori provenienti da diverse nazioni: italiani soprattutto.

Dopo il bellissimo film  L’uomo giusto del 2007, storia d’amore complessa tra un settantenne italiano e una ragazza russa di 22 anni, e dopo aver girato insieme a Ramon Alos Sanchez  l’interessante documentario Incidenti del 2005, Trupia sembra aver trovato il passo giusto per esprimersi al meglio come regista-autore in una serie di nuovi progetti filmici. Trupia è stato anche aiuto regista,  e ha scritto diverse sceneggiatore per film di qualità che hanno avuto un buon successo di critica.

Itaker è un sopranome dispregiativo proveniente dal sociale tedesco più insicuro e povero, quello di notevole miseria anche culturale, è un termine dato a quella parte assai minoritaria degli italiani  dediti,  in Germania, per lo più alla malavita.


  La fotografia del film, dai colori cupi, freddi e stinti, dipinge bene l’atmosfera psicologica ed esistenziale presente in quelle baracche e nelle strade esterne situate nel quartiere. Quest’ultimo è un rione squallido, uniformemente grigio, gelido testimone di smagliate  e conflittuali tradizioni,  di radici ferite che rendono ancora più difficile la convivenza umana che anima la comunità di immigrati nel sociale tedesco.

 Il protagonista del film, Pietro, un bambino rimasto orfano a seguito della morte improvvisa della madre,  si ritrova, per interessamento umanitario del parroco, in viaggio verso la Germania, con uno sconosciuto di nome Benito.

 L’uomo con una lettera-documento di accompagnamento ha promesso di riportarlo dal padre, mai visto prima, emigrato da anni in Germania e disinteressato del tutto, a un certo punto, della sua famiglia.

Pietro scoprirà  che Benito si era preso cura di lui anche per ottenere un passaporto altrimenti difficile da avere.


 L’uomo appare ambiguo, a volte sembra desideroso di  sbarazzarsi al più presto di quel  fardello umano. Il bambino inizia a vivere nelle baracche di legno costruite per gli immigrati vicino alla fabbrica, prendendo via via coscienza, assieme a loro, di una realtà difficile da vivere perché spesso dominata da mali di ogni genere, una realtà fatta di violenze, umiliazioni, competitività scorretta, scherzi mortali, sfruttamento bestiale, delusioni.

La lontananza dalla famiglia, accrescerà in alcuni disperazione, depressione, malinconia, facendo perdere la voglia di lottare per i propri  diritti, cosa che accentuerà  lo sfruttamento dei manager di fabbrica. Finché un giorno a  utilizzare la situazione di estrema debolezza psicologica presente negli immigrati, sarà il boss locale Pantanò (Placido), un “Itaker” a tutti gli effetti,  venditore di stoffe contraffatte e dedito a truffe di ogni genere, l’uomo accoglierà una domanda di lavoro supplementare di Benito,  per poi impadronirsi della sua volontà e della sua donna, e godere di una ebbrezza di onnipotenza senza confini etici. 


Che sviluppi avrà la storia quando si avvierà verso il finale del film?

Questo  coinvolgente e straordinario film drammatico impregnato di vero, ha già portato allo   staff   che lo ha realizzato, un Nastro d’argento e a un Globo d’oro. L’opera è firmata da Toni Trupia,  un autore-regista, militante da anni, in forme collaborative diverse, nel cinema di qualità,  con risultati di tutto rispetto.

Toni Trupia  è un artista di cinema  che non ama il rumore mediatico, costruisce le sue opere cercando  modi espressivi potenti e originali in grado di configurare al meglio la profondità  dell’accadere che caratterizza la  vita reale più problematica delle persone.

 Trupia sembra voler rinunciare a quel tipo di intrattenimento mediatico, per lo più  spettacolare, e forse oggi predominate nel cinema,  che viene scambiato, a causa della forza dell’influenza della politica di oggi e della televisione nel campo della sottocultura, come capacità di comunicare con le masse, che altro non è se non un  paradosso, soprattutto se si pensa  agli accecanti vuoti culturali che i media ogni giorno  accendono  mettendo in primo piano le miriadi di irragionevoli e a volte manipolanti proposte consumistiche.  Non dimentichiamo come il genio di Pasolini avesse individuato da tempo nella società dei consumi,  nata nel dopoguerra, forme di aggressività  ideologica e autoritarismo simbolico, con pesanti condizionamenti psicologici, accompagnati da cinismo e impersonalità fantasmatica dei soggetti-autori, cose simili per certi aspetti al peggior fascismo.

 

Questo film, con i suoi eventi tinti di vero e ad  alto  contenuto umanistico, privi di effetti edulcoranti, sembra voler sollecitare, tra le altre cose,  una critica tra le righe al concetto di comunicazione così come lo si intende nella nostra società dei consumi a partire dal dopoguerra ad oggi. E’ qualcosa di estremamente opportuno, sopratutto se si pensa che viviamo in un contesto mediatico sempre più opprimente che, nonostante il diffondersi dei nuovi media interattivi, vede il massiccio affermarsi del linguaggio delle apparenze.

Da un punto di vista un po’ più intellettuale sembra si possa dire quindi che l’interesse artistico e letterario del regista-autore Trupia riguardi  la condizione umana per come è effettivamente, intesa in tutte le sue sfaccettature più dure, storiche, sociali ed esistenziali. Quest’ultime appaiono,  nei personaggi di Trupia, spesso colorite di passioni autodistruttive, vita e morte in esse sembrano infatti sempre meno distinguibili, tanto da apparire  fuse,  cosa che fa sorgere nello spettatore la sensazione che i personaggi del film siano posseduti dal magico effetto  prodotto dalla seduzione ad alto rischio, quella in grado di portare, nell’indifferenza etica,  i personaggi immigrati sulla piacevole e avventurosa soglia della malavita.


Vita e morte allora sembrano non avere più  una frontiera precisa, come è osservabile nelle famiglie oneste che vivono una fase felice, anche lunga, della loro vita. In questo film  i due termini, con le loro rispettive pulsioni rappresentative,  si intrecciano, inaugurando un tragico percorso dove il piacere, ostinato, trova sempre un suo posto perché freudianamente  affonda le sue radici in quelle risorse umane  che scaturiscono dal principio di piacere inconscio. Un piacere, che in certe condizioni di miseria, può appunto procedere via via nella direzione del male, accostandovici tragicamente senza paura.

Vita e morte inseparabili quindi in questo film, ma ben leggibili sociologicamente e psicologicamente attraverso il medium cinematografico grazie a  un interesse anche poetico dell’autore-regista del film che sembra proprio ispirato.

Vedendo e riflettendo su questa opera, si rimane poi stupiti per come essa appaia ancora inspiegabilmente  ignorata dalla critica cinematografica italiana, in particolare quella di maggior peso giornalistico.

    Biagio Giordano 

 

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