CINEMA: Il Vangelo secondo Matteo

 
RUBRICA DI CINEMA A CURA DI BIAGIO GIORDANO
Il Vangelo secondo Matteo
Prossimamente in TV digitale terrestre

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Il Vangelo secondo Matteo
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Anno di produzione 1964

Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini

 Fotografia Tonino Delli Colli;  

architetto-scenografo Luigi Scaccianoce;

costumi Danilo Donati;

 musiche a cura di Pier Paolo Pasolini;  

musiche originali Luis Bacalov;

montaggio Nino Baragli;

aiuto alla regia Maurizio Lucidi;

assistenti alla regia Paul Schneider, Elsa Morante.

Interpreti e personaggi: Enrique Irazoqui (Gesù Cristo, doppiato da Enrico Maria Salerno); Margherita Caruso (Maria Giovane); Susanna Pasolini (Maria Anziana); Marcello Morante (Giuseppe); Mario Socrate (Giovanni Battista); Rodolfo Wilcock (Caifa); Alessandro Clerici (Ponzio Pilato); Paola Tedesco (Salomè); Rossana Di Rocco (angelo del Signore); Renato Terra (un fariseo); Eliseo Boschi (Giuseppe D’Arimatea); Natalia Ginzburg (Maria di Betania); Ninetto Davoli (pastore); Amerigo Bevilacqua (Erode I); Francesco Leonetti (Erode II); Franca Cupane (Erodiade); Apostoli Settimio Di Porto (Pietro); Otello Sestili (Giuda); Enzo Siciliano (Simone); Giorgio Agamben (Filippo); Ferruccio Nuzzo (Matteo); Giacomo Morante (Giovanni); Alfonso Gatto (Andrea); Guido Gerretani (Bartolomeo); Rosario Migale (Tommaso); Luigi Barbini (Giacomo di Zebedeo); Marcello Galdini (Giacomo di Anfeo); Elio Spaziani (Taddeo)

Produzione Arco Film (Roma) / Lux Compagnie .

Durata 137 minuti.

Recensione di Biagio Giordano

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 Il Vangelo secondo Matteo uscito nel 1964 è un’opera filmica particolare, assai lontana dai codici visivi più noti della storia del cinema su questo genere,  la pellicola ha un’andatura stilistica sobria, povera di invenzioni formali, ma nonostante ciò il film stupisce per la potenza espressiva che emana e le cui origini appaiono misteriose; è come se la sobrietà in Pasolini fosse una condizione per raggiungere profondità di un certo rilievo, qualcosa che tuttora sembra riuscire a sfuggire ad analisi semplificate e dal senso univoco, così frequenti nel mondo del cinema. Di ciò i critici cinematografici hanno piena consapevolezza ed è il motivo per cui hanno spesso approvato a pieni voti  le opere di Pasolini.


Nessun intento strettamente commerciale o fotogenico ne condiziona la composizione che appare perciò del tutto spoglia di effetti estetici  ricercati: tipici consolatori di quei gusti che nel genere religioso si pongono sovente un po’ a margine dell’opera alimentando forme di sincretismo adagiate nella depressione più che nella fede.

Quest’opera di Pasolini nonostante le apparenze è un film enigmatico, come d’altra parte sono, da un punto di vista laico, tutti e quattro i vangeli. Esso è perciò impenetrabile razionalmente e forse proprio per questo è in grado di sollecitare meglio i meccanismi inconsci più profondi legati al fantasma del padre e rispolverare l’animismo inconscio dell’umano  più antico, quello che da sempre appare sensibile al richiamo seduttivo etico – religioso.

A differenza di altri film di questo genere, vedi ad esempio La passione di Cristo di Mel Gibson uscito nel 2004, gli  assemblaggi scenici più cruciali di questo film di Pasolini, quelli legati alla morte, non hanno mai sullo spettatore degli effetti violenti.  Il film  infatti manca di  risvolti masochistici, di appagamenti corporei flagellanti, in qualche modo legati alla fede cristiana delle nazioni europee del sud. Cioè detto in altri termini il film è privo nei suoi personaggi di quelle pulsioni più affini a un sentimento misto a pietà e orrore tipiche della diffusione cristiana col cattolicesimo.


 

La pellicola tende a ridimensionare o stemperare il dramma della passione, come se volesse in qualche modo  criticare alcuni aspetti della tradizione imperante legata a una raffigurazione di Cristo nel dolore, immagini prodotte dai media  evangelici, soprattutto da parte di quelli per lo più legati, per certi aspetti non marginali, all’integralismo-cattolico.

L’autore preferisce giocare molto sulla allusione e la deduzione di certi fatti, sulla ineluttabilità profetica della morte di Cristo priva di sangue: tanto essa appare liberatoria in una dimensione metaforica, legata cioè con il simbolo della resurrezione alle speranze rivoluzionarie presenti nelle sue parole terrene.

 Il vangelo secondo Matteo è un film di forte impronta soggettivistica, ma anche molto attento a trasmettere il messaggio evangelico nella sua più oggettiva realtà e semplicità, un vangelo decriptato laicamente che invita la fede a uscire dalla sua povertà concettuale e ad essere critica.

Pasolini spinge il testo sacro fuori dalla sua cripta aurea, mostrandone laicamente il vero volto, quello che non può fare a meno di svelare   a un certo punto tutta la sua positività desiderante, fatta di speranze in una vita migliore supportata da ciò che in questo mondo manca: l’amore costante e rassicurante con il padre, qualcosa che miracolosamente possa porre al di là di ogni figlicidio e parricidio condizionanti la sfera sessuale nella civiltà.


Speranza paradossalmente sostenuta dall’assurdo: dalle sue pulsioni presenti nelle forme oniriche create dall’inconscio, tese alla ricerca di un futuro di soddisfacimento eticamente ammesso, al di là quindi di ogni  nevrotizzazione sempre in agguato nel civile di concezione freudiana.

E’ una pellicola questa di Pasolini di un notevole spessore culturale e artistico.  Basti pensare a come essa metta in risalto la forma scritturale del narrare: un’espressione compositiva originale, pienamente calata nel popolaresco dei miti, impregnata qua e là di  una sacra aurea di umiltà; quest’ultima a volte appare rinunciataria, altre volte esemplare soprattutto per il modo con cui riesce a comunicare un’etica altra ben incastonata  nella virtù della pace.

Una composizione filmica vicina per ispirazione al protestantesimo, costituita da raffigurazioni rispettosamente proiettate, nel loro senso più vivo, verso il divino, nella direzione di un Dio redentore, liberatore di ogni colpa umana per fede, senza quindi l’orrenda offerta del sacrificio del figlio o la inevitabile nevrotizzazione del fedele  per ottenere a tutti i costi quella salvezza che richiede un impegno doveroso in faticose buone opere, espiatrici e compensatrici del senso di colpa originario (l’uccisione del padre?).


 

 Il film ha dato l’impressione di voler esprimersi con una scrittura molto spontanea, portatrice di emozioni poco elaborate, potenti, una scrittura senza pose o artifici recitativi professionali,   priva quindi di forme per questo genere stucchevoli perché ad effetto omogeneità con conseguente appiattimento del testo evangelico.

Uno stile  che ha conquistato negli anni ’60 sia il pubblico che la critica, scontentando solo chi nelle istituzioni religiose e al festival di Venezia era rimasto  in qualche modo   fedele all’estrema destra tradizionale, ai suoi valori  più aristocratici e alla sua cultura della discriminazione per appartenenza sociale, aspetti che erano ancora molto diffusi nell’Italia di allora.

Pasolini riporta nella sua narrazione, a forti tinte chiaro scure, alcuni eventi e aspetti del linguaggio spiritualmente più alto presenti nel vangelo sinottico di Matteo (80 d.c.), un evangelista che aveva, a differenza degli altri, la particolarità di rivolgersi per lo più alla popolazione ebraica di Israele.


 Per  stessa ammissione dell’autore la pellicola voleva essere una scrittura messa in movimento non dalla fede ma da una passionale identificazione e proiezione personale dell’autore con alcuni aspetti dei contenuti del testo sacro. Il film  appare infatti animato da qualcosa che è del tutto diverso rispetto all’ispirazione che tradizionalmente caratterizzava  i cristiani in fede dediti alla scrittura di parti significative del testo biblico.  

E’ come se la lettura evangelica di Pasolini fosse alla ricerca di nuove forme di suggestionabilità, lontane da quelle insite nell’insegnamento teologico formativo tipico del mondo cattolico  più istituzionalizzato.

In questo film Pasolini  trasporta in modo geniale un suo slancio  poetico particolare, indubbiamente dal carattere spirituale universale, ricco di fervore, dal forte sapore  etico  legato all’altro, un’etica senza tempo, qualcosa che continua ad attraversare periodicamente e potentemente la storia spirituale occidentale da più di duemila anni.

Biagio Giordano

 

 

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