Celebrare il territorio, criticare partecipa

Celebrare il territorio, criticare partecipa

Cara agricoltura siamo tutti esperti, ma non sappiamo cosa fare, e ci sentiamo (come territorio) affondare.

Celebrare il territorio, criticare partecipa

Ho letto l’articolo di Uominiliberi circa la recente “Fiera del Tartufo” di Millesimo. Scrivo qui in estrema sintesi il contenuto dell’articolo, ma chi vuol leggerlo per esteso (e non è lungo) lo trova… qui

L’articolo in questione riguarda la non centralità del tartufo nella fiera a lui dedicata, anzi, alla presenza cospicua di altre bancarelle alimentari, aspirapolveri e altro. Troppo pochi tartufi. Rimpiange, ironicamente, il presenzialismo del sindaco emerito, Righello, giusto per far risaltare la vanità dei nuovi assessori o impiegati comunali.

La gente sembrava tanta solo perché era ristretta nell’ “Imbuto di piazza Italia”.


Onore delle armi per “alcuni sedicenti agronomi” (mi par di capire che si tratti di Gianpietro Meinero, della locale condotta Slow Food) per l’impegno profuso nel recupero di alcune varietà locali, ma trattasi di fatica sprecata, da portare al capezzale della cara agricoltura, moribonda in Valle Bormida.

Sono stato parte in causa (molto piccola) della “Fiera”, visto che ho partecipato al convegno della domenica mattina, insieme ad autorevoli personaggi. Inoltre Gianpietro è un amico, come altri attivissimi della condotta Slow Food. Tutto questo mi permette di dire la mia sulla questione, sia pure solo come punto di vista personale.

Certo, tartufi non ce n’erano molti. Forse anche perché il fungo in questione non è patata, che si cava e si trasporta a belle cassette. Ma un pregiato, piccolo e raro organismo, prezioso e inconsueto. Per fare un mercato del tartufo non serve piazza Italia: basta molto meno. A Mondovì, negli anni Ottanta (e anche verosimilmente prima) il mercato del tartufo si svolgeva in via Prato, un vicoletto che dalla centrale via sant’Agostino portava verso il Rinchiuso. Ogni sabato mattina (giorno di mercato, ma questo si svolgeva più lontano) i cercatori e i commercianti di tartufi, si ritrovavano là. Non si vedeva circolare un tubero, non si vedevano circolare soldi. Persone anziane, ben vestite, con il cappello, chiacchieravano come se niente fosse. Ma intanto trattavano pesi e cifre da spavento, con semplice sobrietà e una stretta di mano. C’era solo, a denunciare il mercato, il profumo penetrante nell’aria. Evidente.


Gianpietro Meinero

Ma era quello che bastava: per il bacino monregalese e il mercato di quegli anni, quello era lo scambio, il contratto, l’affare da farsi. E tutto si svolgeva in un centinaio di metri quadrati.

A trent’anni di distanza troppe cose sono cambiate. Soprattutto in Valle Bormida, dove le fabbriche ci avevano convinto che la terra non servisse più a nulla. Lavori a orario e stipendio fisso, compri quello che ti serve al supermercato. Basta. Non devi guardare le nuvole, la luna, il fiume, gli occhi delle bestie. Niente. Puoi guardarti tranquillo la televisione.

A noi, a quelli come me, nati negli anni Sessanta, non hanno insegnato nulla che fosse di pertinenza agricola. Nulla del mondo rurale avrebbe potuto servirci nel futuro: neanche il dialetto. I nostri genitori parlavano in dialetto tra loro, e si rivolgevano a noi in italiano. Ci hanno pagato studi, quasi sempre adatti per l’industria, la tecnica, il commercio. Ma le fabbriche ci hanno tradito, e se ne sono andate quasi tutte. Il mondo del lavoro è degenerato a tal punto che un contratto a tempo indeterminato pare un dono sovrannaturale; lo stipendio alla data convenuta, una grazia.

Ci si guarda in giro, qui in Valle, e si vedono numerose case con il cartello “vendesi”, capannoni vuoti, fabbriche deserte. Non tutte, per carità. Ma molte. E non si accenna a cambiare. Ogni tanto facciamo un nuovo capannone (un magazzino) o uno svincolo stradale, o un supermercato o addirittura un centro commerciale. E intanto i campi superstiti dal cemento si riempiono di sterpaglie, gli orti si coprono di spine, le stalle sono vuote e gli attrezzi finiscono sempre solo a celebrare un passato glorioso, ma passato, appunto. Senza vedere in loro nulla di nuovo o di utile, senza neppure lasciarci comprendere quali raffinati segreti tecnici e pratici nascondono.

  

In mezzo a tutto questo, ci sono alcuni personaggi che credono ancora nell’agricoltura. E ci credono in maniere molto diverse, tali per cui è facile anche discutere animatamente, perché i punti di vista, le visioni del futuro possibile, i metodi di promozione e di sostegno di un settore perennemente in difficoltà sono sempre estremamente diversi. Ma tutte queste persone sanno che la nostra vita dipende da quello che mangiamo e dalla dignità del lavoro che facciamo per procurarci il cibo. Avere una (sia pure) piccola indipendenza alimentare è fondamentale.
Ma da dove si parte? Come si fa a trovare nuove generazioni curiose, appassionate, attratte da un lavoro degno, ma faticoso e sottoposto a mille rischi e mille fallimenti? E soprattutto mai apparentemente allettante come un lavoro “sicuro” e retribuito da moneta sonante.

No, con la zucca di Rocchetta, con il moco, con i tartufi della Val Bormida non salveremo e non rilanceremo un bel niente.

Oggi, l’agricoltura, in provincia di Savona (non meno che nel resto d’Italia) è minacciata soprattutto dalla cementificazione, dal consumo del territorio fertile (si vedano i dati dell’ultimo censimento dell’agricoltura). Il bosco avanza, distruggendo le fasce. I centri commerciali avanzano, come gli svincoli, come i capannoni. E dove abbiamo versato tonnellate di cemento non potremo mai più, mai più seminare il grano, il mais, le patate. Quale agricoltura ci resta? Quella delle piccole conserve speciali? Quella del prodotto di nicchia a cinquanta euro al barattolo?


Togliamoci dalla testa che l’agricoltura valbormidese possa essere assimilata a quella (per dire) piemontese, dove ampi campi in piano e ben irrigati possono produrre il foraggio per centinaia di capi di bestiame. Qui è tutto marginale e organico, misto e contaminato, multiforme, riadattato, arrangiato alla meno peggio.

Bisogna parlare di agricoltura perché è proprio come seminare: occorre ripetere cento volte gli stessi concetti, in pubblico e in privato, tra amici e tra sconosciuti. Recuperare parole, usanze, attrezzi, semi, consuetudini, terreni, coltivazioni, mercati. Tutto questo non dà frutto. È un lavoro di dissodamento che si porta avanti per preparare il terreno ad altri, oggi bambini, che cresceranno con la tentazione (speriamo realizzata) che sia possibile produrre da sé una larga parte di quello di cui si ha bisogno. Che sia possibile scambiare l’eccesso. Che questo sia una consuetudine di vita centrale, ma non unica e indispensabile. Agricoltura vuol dire avere di meno, non di più. Ma meglio. Questo si. E tutto questo cozza con gli attuali slogan: consumare, far ripartire i consumi, spendere, uscire dalla crisi.


Nessuno è maestro: non sappiamo come comportarci, come realizzare questa diffusa aspirazione ad una vita non più radicata nel mercato, ma nella terra. Per questo si prova con quel che sappiamo: il tartufo, il bestiame, la zucca, i funghi, le castagne. Una fiera resta una fiera, in cui c’è di tutto (e meno male) e però la gente viene, gira e prova a pensare per un attimo all’agricoltura. E c’è posto perfino per i politici, eletti o emeriti. Basta però che sia un’occasione per richiamare alla loro attenzione tutta la responsabilità della loro missione. Fatevela, questa passerella tra le cose pittoresche e caratteristiche. Ma dopo ragioniamo davvero su come riportare il pensiero all’agricoltura, senza celebrazione, senza folklore, senza culto dei bei tempi andati. Cosa facciamo oggi, per avere un’agricoltura valbormidese domani?

Meinero, come altri amici di Slow Food che qui non nomino, per evitare di dimenticarmi qualcuno, ci provano, insistono, ripetono. Sbagliano? Può darsi. Occorre aspettare una ventina d’anni per sapere se oggi hanno ragione a far quel che fanno. Io vedo qualche piccola avvisaglia, vedo qualche giovane occuparsi delle sue patate, del suo mais, delle sue mele. Questo ci serve, è un buon inizio. E sono quasi sicuro che germoglierà con altri giovani, magari nuove generazioni.

Quel che non ci serve sono i convegni generalisti sulla “promozione del territorio”, che finiscono per non essere niente e non dire niente di nuovo. Quel che non ci serve è una critica a quel poco che c’è: un piccolo nido di brace, da covare e coltivare, sperando che possa diventare un buon focherello.

Sia chiaro che la posizione di Slow Food non è da me perfettamente condivisa. Ma qui il discorso si farebbe complicato e uscirei pure fuori tema, e come sempre le mie articolate posizioni non sono di grande interesse per i pochi lettori.

Cara agricoltura (citando la chiusura dell’articolo) siamo tutti esperti, ma non sappiamo cosa fare, e ci sentiamo (come territorio) affondare. E come in tutti i disastri lenti, c’è chi affoga subito, chi scappa, chi suona il violino sul ponte, noncurante; c’è chi suona la grancassa della polemica e infine c’è anche chi scompostamente si dibatte, magari senza arrivare a soluzioni, ma alimentando speranze, voglia di vedere un nuovo orizzonte e lasciare una trama di racconto da continuare, per chi viene dopo.

Alessandro Marenco

 

 

 

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