C’è formaggio e Formaggio

C’è formaggio e Formaggio 

C’è formaggio e Formaggio

Da noi si chiama “formagetta”. È la figlia diretta dei nostri bricchi. Colline coperte di boschi, cascine isolate in cui il grosso del lavoro era la legna, il carbone di legna, le fascine, i pali da vigna. Non ci sono mai stati grandi pascoli: quasi sempre piccoli prati a suo tempo da falciare a mano, a schiena china da prima che arrivasse il sole. E se il fieno è poco non puoi organizzare grandi allevamenti. Anzi: finisce che i bovini vengono allevati perché non se ne può fare a meno. Le vacche, a volte i fortissimi buoi, andavano attaccati al carro, proprio per trasportare la legna o per arare gli appezzamenti da destinare alle patate o al mais. Più raramente al grano o all’orzo: specialità da pianura.

Nella piccola (e povera) cascina di un tempo trovavano quindi posto un paio di bovini, galline, talvolta conigli, finalmente pecore e capre. Dobbiamo immaginare (e per noi è difficile) un mondo in cui il fieno aveva il valore della benzina oggi: forza motrice, energia, sostentamento. Per questo non c’era prato, ma anche avvallamento, erta, burrone, margine di strada da cui non si falciasse attentamente fino all’ultimo filo d’erba. Erba che non bastava mai, perché l’inverno è lungo e la terra serviva anche per altre colture. Insomma, le bestie finivano per mangiare quel che c’era: le foglie di rovere sono le più dure a staccarsi dalla pianta durante l’inverno. Si facevano fasci di rami con queste foglie secche e si somministravano alle bestie, più affamate dei loro padroni.

La quantità di latte era scarsa, e il formaggio non poteva mai essere lo stesso. Il formaggio dei nostri bricchi era, tradizionalmente, composito, con proporzioni variabili. Vacca – pecora – capra. Un poco più scarsa la capra, poiché particolarmente famelica di germogli, cortecce, piccoli arbusti, insomma: un danno per la coltura del bosco. La pecora, più mite e delicata, aveva il pregio di nutrirsi soprattutto d’erba, o di adattarsi con quel poco, magari integrato nella stagione peggiore da una qualche zuppa vegetale.

Ogni cascina una mano diversa, un’alimentazione diversa per gli animali, una composizione diversa della stalla (e del latte). Insomma, ogni casa (cascina) aveva il suo formaggio.


Il metodo era in fondo sempre lo stesso, detto grossomodo, si tratta di cagliare il latte nella “burnìa” (contenitore in terracotta), rovesciarla dopo il tempo corretto nella “ferscéla” (fascera) senza rompere la cagliata. Lasciarla sgrondare e poi salare e asciugare. Magari porre a seccare nell’apposita gabbia, da tenere nella stanza più fresca della casa. E tutto questo formaggio era sempre diverso volta per volta, diverso casa per casa. Si, magari c’era la donna più brava, più accurata, che aveva elaborato un rituale (eh si, a questo punto si chiama rituale, non ricetta) per preparare il formaggio, per cui si aveva infine sempre un formaggio a pasta compatta, senza buchi, mai con quel fondo amarognolo che a volte si può trovare. Una brava donna, questa che sapeva fare il formaggio. Perché in quel tempo era la donna che faceva il formaggio, badava all’orto, al pollaio (oltre alla raccolta di funghi e frutti spontanei, come mirtilli e fragoline), per produrre insomma tutte quelle cose che avevano corso legale praticamente quanto la moneta corrente. Il suo lavoro poteva rapidamente essere convertito in sale, stoffa, acciughe. Quel che la cascina non poteva produrre.

Tutta la spiegazione serve per arrivare a pensare a cosa c’è dietro un pezzetto di formaggio. E ancor di più a pensare a cos’è il formaggio oggi. Possiamo trovare del gruviera, del pecorino, del parmigiano, sempre perfettamente uguale a sé stesso, non cattivo, mai. Neanche eccelso. Talvolta persino cambiando marca, si fatica a percepire la differenza. Alcuni formaggi sono fatti addirittura con semilavorati provenienti dall’estero. Sono economici, si conservano bene, non hanno mai nessun odore sgradevole. Eppure non hanno quasi più niente a che fare con la storia dell’uomo.


 Il formaggio è, più di ogni altra cosa, il figlio sano di un territorio. Anche se non si può parlare di un solo formaggio, ma di una certa consuetudine nella preparazione. Un formaggio unificato, sempre uguale (anche di ottima qualità) deve essere un prodotto impersonale, industriale, scaturito da una produzione diffusa, organizzata, prevedibile e performante. Niente di male, di per sé. Però bisogna tenere bene a mente le differenze quando si compra il formaggio al supermercato o in cascina da un amico. Paghiamo il formaggio troppo poco. Se fosse vero che il formaggio è tutto quel che ho detto. Ma veramente possiamo chiamare formaggio quell’altro? Quello che si trova generalmente nei supermercati? Anche se si trattasse di nomi altisonanti, di DOP, di produzioni di nicchia (parlar di nicchia, dentro un supermercato è come parlare di ventilatori per cambiare l’aria sulla luna) come si può mettere d’accordo una produzione preziosa perché è peculiare, con una esigenza precisa di approvvigionamento, anche di prezzo e di accessibilità, a cui la grande distribuzione assolve?

L’importante, mi dico e vi dico, è sapere cosa è formaggio e cosa gli assomiglia. L’importante è sapere che un certo prodotto, senza etichetta, è comprato per via della faccia onorevole ed amichevole di chi ve lo vende. L’altro prodotto è invece garantito da una filiera, da un disciplinare, da un’etichetta ben codificata, che garantisce, ma impoverisce la storia di quel prodotto. E questa bella invenzione della filiera e della tracciabilità, sembra un’invenzione fatta apposta per dire: se c’è qualcosa che non va, ecco di chi è la colpa. Senz’altro non della distribuzione.


Pare che negli Stati Uniti sia stato ammesso sul mercato un formaggio “non formaggio”, cioè ottenuto da una lavorazione chimica a partire da siero, proteine del latte, grassi idrogenati, coloranti e sale. Il prodotto in questione (industriale, che non ha niente a che fare con l’agricoltura. Niente) si può usare liberamente chiamandolo formaggio, infilandolo proditoriamente negli hamburger, megapanini, zozzerie tipicamente americane).

Ecco, forse fino a quel punto sarebbe opportuno non arrivare. Mica per altro: il formaggio è un’altra cosa. Sarebbe sempre utile tenerlo a mente. 

ALESSANDRO MARENCO

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