Caso Garlasco: quando l’Italia dimentica tutto, tranne lo spettacolo

Credo che tutti si siano accorti — e forse stupiti — della rapidità con cui, nell’arco di pochi giorni, il caso Garlasco è tornato al centro dell’attenzione mediatica. Un ritorno improvviso, martellante, inesorabile. Un vero e proprio colpo di stato mediatico, per usare un’espressione forte ma, purtroppo, adeguata.

Un caso giudiziario sepolto da anni, che aveva già suscitato dubbi e perplessità in Italia e all’estero, è improvvisamente riesploso, come succede ciclicamente nel nostro Paese. Perché qui da noi, almeno una volta all’anno, spunta fuori un caso “strano”, irrisolto o — peggio — risolto al contrario, per convenienza di qualcuno.

Da Giuliano a Wilma Montesi, passando per Emanuela Orlandi e Simonetta Cesaroni: la tradizione del cold case all’italiana è lunga e sempre più grottesca. Ma il caso Garlasco, stavolta, ha fatto piazza pulita di tutto. Telegiornali oscurati, talk show monopolizzati, notiziari saturi. Persino Vespa e Del Debbio, solitamente impegnati a raccontarci le gesta profetiche di Donald Trump, si sono dovuti arrendere e cedere spazio.

E così ci ritroviamo catapultati di nuovo nel 2007. Diciotto anni dopo. Ancora a parlare di dragaggi nei fiumi, di sommozzatori alla ricerca dell’arma del delitto. Eppure, in diciotto anni — e lo sappiamo bene — il Nord Italia è stato colpito da decine di alluvioni e disastri ambientali. Ma ora ci vogliono far credere che, proprio adesso, emergerà qualcosa di decisivo?

Nel frattempo, rivediamo in TV le gemelle amiche di Chiara, che un tempo venivano descritte come egocentriche e oggi sembrano comparse in una pubblicità chirurgica venuta male. Rilanciano dichiarazioni confuse, tra compleanni in piscina, antipatie per la cucina e presunte vendette. Una telenovela che avrebbe fatto impallidire Beautiful.

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Nel marasma generale, spunta il “nuovo sospettato”: un vigile del fuoco legato sentimentalmente alla madre di Andrea Sempio. Un personaggio mai menzionato prima, ma ora catapultato al centro della scena. Coincidenze?

Il tutto accompagnato dalla presenza ossessiva dell’avvocato De Rensis, ormai ospite fisso su ogni rete: Rai, Mediaset, web, persino canali sportivi. Lo trovi ovunque. E ripete, sempre con lo stesso tono, che Stasi è innocente. Non entra mai troppo nei dettagli, ma insinua che i colpevoli siano “gli altri”. Chi siano, però, non lo dice.

Sembra di vivere in una bolla, dove la verità non interessa più. Dove la logica si piega alla narrazione. Dove si può perfino sostenere che i satelliti possano riconoscere chi lancia sassi da un cavalcavia osservando il colore dei capelli o se indossa una felpa. Non è giornalismo. È farsa.

E così Garlasco non è diverso da altri casi come Olindo e RosaBossettiDavid Rossi, o l’ultima tragedia — quella di Marco Vannini — dove un ragazzo viene colpito da un proiettile alla spalla da un sottufficiale dello Stato. Un colpo partito da una pistola “che pensava fosse scarica”. Poi, la chiamata al 118: “Si è punto con un pettine”. Il ragazzo muore. L’autopsia conferma: colpo d’arma da fuoco. Ma la condanna esemplare non arriva. Perché si comincia a parlare di colpa cosciente, dolo eventuale, circostanze attenuanti… e così il tempo passa e la giustizia si diluisce.

Questo è il vero volto del sistema. Quando c’è un dogma — “è stato lui e basta” — non se ne esce più. E, al contrario, se “non è stato lui” ma lo si deve far diventare tale, si manovra fino a far quadrare i conti.

Quante volte abbiamo sentito dire che la colpevolezza va dimostrata “al di là di ogni ragionevole dubbio”? In Italia, succede esattamente il contrario: si assolve con superficialità e si condanna con troppi dubbi. Sempre a senso unico.

Di questo parleremo ancora, perché serve. E perché — prima ancora di una verità giudiziaria — serve una coscienza collettiva che non si faccia prendere in giro.

Alberto Bonvicini 

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