CAPITALISMO DOLCE?
Curiosando in libreria, l’occhio mi è caduto su un libro dal titolo “Il movimento B Corp”. Sottotitolo “Un capitalismo sostenibile per un mondo migliore”. Si auto-definisce come il “miglior movimento sociale, di cui non avrete mai sentito parlare”.
Vediamo di capire meglio. Il capitalismo di cui il libro parla è, in sostanza, la sua variante “buona”, e cioè sollecita dei lavoratori, della società e dell’ambiente. Per giungere a questo ambizioso traguardo, il capitalismo deve rinunciare alla sua principale ragion d’essere: il privilegio riservato agli azionisti, al di là e al di sopra di ogni considerazione di ordine sociale, sindacale, ecologica. Sembra una contraddizione in termini e verrebbe fatto di richiudere il libro e relegarlo nel mondo dei bei sogni, sconfessati dalla cruda realtà.Ma l’autore appoggia le sue enunciazioni con fatti concreti, snocciolando tutta una serie di grandi e meno grandi società che avrebbero messo in pratica quei nobili propositi. A cominciare dal colosso Unilever che, grazie alla guida del suo penultimo CEO, Paul Polman, ha messo in atto tutte le misure necessarie a diventare una società “B Corp certificata”. Infatti, questo movimento ha redatto una serie di requisiti che identificano una società come papabile di fregiarsi di questa qualifica, che, secondo l’autore, molte altre società ambiscono di poter annoverare tra i propri crediti.In sostanza, si chiede niente di meno alle società certificate di privilegiare gli stakeholder (i detentori di interessi diffusi, dai lavoratori ai consumatori ai diritti dell’ambiente, insomma, le cosiddette “esternalità”) anziché, come sin qui considerato essere connaturato ad una società per azioni, dare la precedenza ai profitti dei suoi azionisti (shareholder), a prescindere dai mezzi con cui vengono conseguiti. Un bel salto di qualità!
Il caso vuole che io abbia passato gran parte dei miei anni verdi proprio in Unilever, come responsabile, grazie anche alla mia padronanza dell’inglese, dei rapporti con le altre consociate sparse per il mondo. Ricordo ancora il titolo di un tema che venne sottoposto ai dirigenti in pectore: “Come ottenere la massimizzazione dei profitti”. Sembra che di acqua sotto i ponti ne sia passata, da quei lontani anni ’60 e ’70, quando, dopo la mia presa di coscienza del problema ecologico, per contrasti con le politiche ambientali della società, rassegnai le mie dimissioni. Uno dei rari casi –credo- di dimissioni di matrice “ideologica”, anziché retributiva.
Resta da vedere come sia possibile attuare questi fulgidi obiettivi, varando un capitalismo virtuoso, anziché dannoso per lavoratori, società, ambiente, come è stato il capitalismo sin dalla sua nascita, nel XVIII secolo. Sappiamo tutti che avere profitti sicuri e a breve termine non richiede particolare intelligenza: basta tagliare i posti di lavoro, sovraccaricando i lavoratori residui o sostituendoli con robot e computer; scaricare nell’ambiente gli scarti di lavorazione, infischiandosene delle leggi; ignorare i guasti prodotti a società e ambiente con questi sistemi di rapina e distribuire gli utili in sostanziosi dividendi agli shareholder. Con questi criteri valutativi i titoli vengono premiati in Borsa e contribuiscono all’aumento del Pil: un indice che guarda solo all’entità delle transazioni senza curarsi dei suoi effetti collaterali. Se esistesse anche un “contro-Pil” che tenesse conto dei guasti collaterali, avrebbe certamente valori di gran lunga superiori a quelli del Pil. Quando si dice che, agli attuali ritmi di consumi e scarti, sarebbe necessario avere a disposizione un pianeta di riserva, si afferma in sostanza questo.
Eppure, l’autore cita, oltre a Unilever, anche Danone e una nutrito numero di altre società, senza però che si capisca come avviene il miracolo. Anzi, si cita Trucost, una società di valutazione dei danni ambientali causati dall’uso di risorse non rinnovabili, per affermare che i relativi “costi ambientali e sociali ammontano annualmente a $ 4,7 trilioni”, concludendo che “i costi ambientali e sociali superano di gran lunga le entrate complessive”. In particolare “nessun settore ad elevato impatto produce abbastanza profitti per coprire gli impatti ambientali”. Cioè, se tale impatto venisse conteggiato, la maggior parte delle industrie sarebbe fuori mercato, pur contribuendo all’aumento del Pil. In particolare, se tali costi venissero calcolati, questi settori, per sopravvivere, dovrebbero scaricarli sui consumatori, ammesso che questi ultimi fossero in grado di sostenerli. E stiamo sperimentando in questi mesi cosa un aggravio a triple cifre di spese sulle spalle della gente sia insostenibile.
A mio modesto avviso, Trucost non fa che riaffermare l’ovvio: basterebbe tener conto nei calcoli del 2° Principio della Termodinamica e del suo parametro più odiato dagli azionisti classici: l’entropia. Se coesistono ad es. società rispettose di ambiente ed altre che non ne tengono alcun conto, è chiaro che sarà quasi scontata la prevalenza di queste ultime: in termini di costi è chiaro quanto sia più “risparmioso” rovesciare liquami nell’ambiente che erigere e far marciare un impianto per il loro trattamento.
Resta pertanto da capire se le società che riescono a prosperare, pur essendo B Corp certificate, ossia società benefit, non abbiano magari qualche altra forma di reddito privilegiato per compensare le spese di tale affiliazione, riuscendo così a primeggiare rispetto alle società più “sporche”, che mancano di tali vantaggi.
Faccio un esempio in altro campo: è dolorosamente noto come l’Italia soffra di uno spread costante rispetto alla Germania, in termini di rendimento dei rispettivi titoli di Stato. Questa situazione azzoppa la nostra competitività, perché significa pagare di più il denaro, in base ad una supposta minor credibilità finanziaria dell’Italia vs la Germania.
Ragionamento analogo va fatto per le multinazionali, che possono tagliare drasticamente le tasse, spostando le sedi legali in nazioni compiacenti, ad es. in Irlanda o Lussemburgo; o, grazie ai loro gangli nei mercati finanziari, ottenendo denaro a tassi agevolati, in facile concorrenza rispetto a società che il denaro devono pagarlo più caro. Di converso, e nonostante queste agevolazioni finanziarie, non capisco come facciano le società benefit: a) a rispettare l’ambiente nei Paesi del c. d. Terzo e Quarto Mondo, dal quale succhiano risorse minerarie ed agrarie; b) a pagare prezzi più equi ai lavoratori di queste miniere e/o piantagioni; c) a risultare cionondimeno competitive nei prezzi finali di vendita al dettaglio, non penalizzando quindi, in ultima analisi, i consumatori, ossia la parte finale e più debole della filiera.
Questa mia non è una polemica, in quanto sarei ben felice di ricevere risposte esaustive da chi in Italia ha affrontato questi problemi sin dagli albori di B Corp, come ad es. NATIVA e le altre società e movimenti che parteciperanno alla 10^ edizione del Salone delle Società CSR (Corporate Social Responsibility) che si terrà il 3-4-5 ottobre 2022 presso l’Università Bocconi di Milano.
Il mio dubbio di fondo è che si voglia mantenere un termine, capitalismo, che dovrebbe invece venir sostituito da uno nuovo, preso dal vocabolario CSR, in quanto lo spirito del capitalismo classico non può sopravvivere nelle società benefit. La loro salute dipenderà anche dalla inevitabile resistenza e ostilità delle società capitalistiche tradizionali, che accordano il primato agli azionisti, senza badare alle esternalità. Warren Buffett, “l’oracolo di Omaha”, ormai 92enne, considerato il più grande investitore di sempre, non ha mai incluso nei suoi criteri di scelta delle aziende in cui investire la loro politica sociale od ecologica. E, come lui, gli altri multi-miliardari, che si sono accaparrati quasi la metà della ricchezza esistente, pagata dalle “esternalità” sociali e ambientali.Marco Giacinto Pellifroni 2 ottobre 2022
Esauriente articolo di economia con temi nuovi e molto interessanti, dovrebbero leggerlo molti economisti e politici italiani, sicuramente avrebbero molto da imparare
Grazie per il commento. Scusa Fulvio, dal momento che tra i contributori ormai fissi abbiamo ben due Fulvio, potresti firmarti con anche il tuo cognome, magari usando anche uno pseudonimo se non vuoi apparire in prima persona? Grazie
Sarebbe il caso, visto che a partecipare a vario titolo a “Trucioli Savonesi” ci sono persone con lo stesso nome, che gli autori dei “Commenti” si identificassero anche col cognome o con un qualche nickname distintivo. Altrimenti tutte le volte è necessario intervenire per precisare se si è oppure no l’autore del commento. Nella fattispecie, devo precisare che questo commento all’articolo di Marco Pellifroni, non è il mio.
Fulvio Baldoino