Beata solitudo

Beata solitudo
Condizione di civiltà e di crescita personale

Le culture  primitive, storiche e contemporanee, sono il risultato di una linea evolutiva che comprende la stazione eretta, il coordinamento occhio mano,  l’attivazione dei centri del linguaggio, l’opposizione del pollice;  sono le condizioni che hanno consentito la genesi della specie umana e formato il divario che la separa dai primati e dagli altri mammiferi:  è la storia dell’homo faber, del costruttore di utensili.  Un salto decisivo  che ha però dei limiti invalicabili: l’uomo si serve della natura rimanendone parte, in qualche modo la addomestica come addomestica gli animali che gli sono utili, impara a difendersi dal freddo e dalle intemperie, costruisce ripari, non si limita, come gli altri animali a raccogliere i frutti della terra ma la forza a produrli.  Sfrutta la natura ma rimane entro i limiti segnati dalla natura.  E una volta soddisfatti i bisogni primari e acquisito il controllo del proprio habitat le culture umane raggiungano un punto di equilibrio e perpetuano se stesse a meno che fattori esterni non inducano un cambiamento.

L’intelligenza dell’uomo completamente orientato verso il mondo esterno, spinto dal bisogno e dall’istinto di sopravvivenza corrisponde a ciò che Jean Piaget intendeva per adattamento, che il ripetersi degli stessi compiti inevitabilmente porta verso la ripetizione e la stagnazione. Che qualcuno tutto sommato potrebbe considerare una condizione ideale, la conseguenza benefica di un patto con la natura. Ma il paradiso terrestre è solo una favola;  la stagnazione è in realtà un progressivo deterioramento, come accade a un organismo che quando non è più in grado di rinnovarsi comincia lentamente a deformarsi. Non si rimane mai quello che si è, si è sempre ciò che continuamente si diventa.  Accade così che le culture primitive si accartocciano all’interno di schemi disadattivi, rituali assurdi, riferimenti valoriali incomprensibili, tessuti sociali che provocano sofferenza ai singoli individui.

La stasi e la degenerazione non colpiscono solo le culture che si sono fermate alla soddisfazione dei bisogni primari.  Raffinate civiltà del passato hanno perso vitalità, incapaci di rinnovarsi  hanno finito per collassare. I segni premonitori  sono riposti nella sclerosi delle conoscenze, nel decadimento del sistema formativo, nella massificazione sociale. Il pericolo infatti non è quello di non crescere ma quello di non sapersi mantenere, di perdersi, di corrompersi.  Rimanere ciò che si è comporta un continuo rinnovamento, come accade col ricambio cellulare in un organismo e l’energia che lo garantisce non è un’astrazione ma è racchiusa nei singoli individui e alimenta la loro vitalità, la loro intelligenza, la loro creatività. Sul piano sociale bisogna che il modello trasmesso dal passato, vale a dire la propria identità, la propria storia, non vada perduto perché i singoli ne possano trarre la loro ragion d’essere e la spinta ad operare. In caso contrario le stesse storture che deformano le culture primitive incapaci di rimanere se stesse si presentano anche nelle civiltà più evolute e ne determinano il crollo.

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Ma dove si manifestano e dove si sviluppano gli individui che garantiscono l’omeostasi del sistema, quelli che se mancano il sistema collassa? Il parametro più ovvio che li identifica è l’intelligenza, che come dote potenziale è sicuramente inscritto nel dna ma come strumento effettivo è funzione dell’ambiente, responsabile dell’insieme dei tratti della persona e del ponte fra l’individuo e la società; perché il contributo dell’individuo dipende dal suo essere portatore di significati sociali senza i quali cade nel solipsismo.

La continuità, la sacralità della continuità, passa attraverso quel ponte, che diventa istituzione nel sistema formativo ma è prima di tutto Tradizione, culto degli antenati, mos maiorum. Che, nella sua essenza, è il volgere lo sguardo dal fuori al dentro, dal flusso degli eventi a quello della memoria, dall’agire al riflettere. E sono proprio la riflessione, l’interiorità, la solitudine che coltivano l’intelligenza, il senso critico, la creatività

I significati sociali debbono fare i conti con l’interiorità per non irrigidirsi e spengersi nella banalità. È un difficile compromesso fra introversione e estroversione, che richiede in ogni caso l’opportunità e la capacità di stare da soli, di isolarsi dai rumori del mondo. Un’opportunità che le culture primitive non hanno e, di conseguenza, non consentono ai singoli individui di sviluppare quella capacità.  Le società evolute, e in modo particolare quella romana antica, che aveva costruito la sua civiltà sull’otium, si distinguono proprio per la liberazione non tanto dal lavoro quanto da ogni tipo di transazione e di rapporto con l’esterno. “O cameretta che già fosti un porto…” canta il Petrarca, al quale fa eco Machiavelli che al termine della sua giornata di lavoro entra nel suo scrittoio e si spoglia di -“quella vesta cotidiana piena di fango e di loto” per indossare le vesti reali e curiali che si addicono “alle antique corti degli antichi huomini”, dove si pasce di quel cibo che solum è suo.

Ma non è, non può e non deve essere prerogativa di personalità eccezionali. Questa è la condizione degli individui che all’interno di un gruppo sociale ne determinano l’equilibrio nel continuo rinnovamento, come dire la vita. In un una società ideale tutti i suoi membri hanno questa possibilità ma in una società reale questo sarebbe inutile o addirittura dannoso per il suo buon funzionamento. Non stupisce pertanto se la maggioranza dei membri del gruppo usa il prodotto finito, delega agli altri l’originalità del pensiero limitandosi a pensare il pensato, a rimasticare quello che è stato elaborato da altri. Non solo: in una società complessa non c’è solo una divisione dei compiti, una compartimentazione dei compiti ma all’interno dello spazio mentale di ogni singolo individuo ci sono aree diverse e modi diversi di approccio alla realtà, caratterizzati da maggiore o minore consapevolezza e partecipazione. Ma se nei singoli individui si viene a costituire un’unica area di passività e se gli individui pensanti sono ridotti ad una minoranza silenziata, se i gangli della società e le posizioni dominanti sono occupate da individui privi di efficaci strumenti cognitivi, l’impianto sociale comincia a traballare, l’arbitrio e l’anomia prendono il sopravvento.

Ne vediamo ora i segni premonitori nello spettacolo sconfortante offerto da chi esce dal sistema formativo, nelle abitudini, nello stile di vita della generalità delle persone e soprattutto dei giovani, nella stessa assenza all’interno delle abitazioni di un locale di raccoglimento, di agostiniano ritorno in se stesso.

Si tratta l’istruzione come uno strumento, alla stessa stregua di un bene materiale che rimane lo stesso in tutte le latitudini, un abito esteriore di informazioni, trasmissione di conoscenze destinate a illanguidirsi col tempo mentre la sua funzione primaria è proprio quella di fucina di menti pensanti. Ci vuole una rivoluzione copernicana che rimetta al centro l’identità personale culturale e nazionale. La base dell’istruzione è infatti la lingua, che non è semplice veicolo comunicativo ma strumento di espressione e di trasmissione di significati e concetti storicamente connotati e di quelli che indichiamo come valori dello spirito. È un errore gravissimo lasciare questa funzione alla religione e alle ideologie, che li snaturano e ne fanno dei feticci di cartapesta: la loro natura non è soltanto laica ma è soprattutto interiore e personale.

Oggi questa funzione non viene svolta e si è creato un circuito perverso fra scuola famiglia e società civile. Un corto circuito che ha favorito l’avvento dell’“anoetocrazia”, il governo dei peggiori, moralmente, culturalmente e cognitivamente.

Tante cose insensate e disfunzionali ne sono l’inevitabile conseguenza: l’arroganza e l’ottusità di funzionari e impiegati, l’ostilità a cui si va incontro negli uffici pubblici, la diffidenza nei confronti delle forze dell’ordine di cui a volte ci resta difficile capire la funzione, il mistero gaudioso dei sentieri che portano alle cattedre universitarie o nelle redazioni dei giornali, il motivo per cui il governo e tutta la politica italiana sono così ammaliati da un personaggio come Zelensky, il credito di cui gode Mario Draghi. E lascio in fondo l’affidabilità di giudici e inquirenti: senza scomodare Tortora ne sono testimoni la buonanima di Pacciani, Rosa e Olindo, Bassetti e, last but not least, Alberto Stasi, che in attesa che venga a fargli compagnia un altro colpevole continua a rimanere in galera.

È un piano inclinato che parte da lontano ma ora riguarda tutti i campi della società e delle istituzioni. Si è iniziato con la corruzione, che in qualche modo poteva essere controllata: poi vi si sono aggiunte dabbenaggine e spudoratezza e non c’è più scampo.

P.S.

Sono convinto che la Meloni, tanto per rimanere in tema, non abbia mai avuto né il tempo né la voglia di leggere qualcosa di significativo, per esempio Guerra e Pace o Delitto e Castigo. Altrimenti non si spiega la disinvoltura con cui tratta la Russia, cuore pulsante dell’altra Europa, depositaria di quella nostra civiltà che da Roma si era trasferita a Bisanzio.

Pierfranco Lisorini

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