Aurelio, Mariuccia, Teresa…
Aurelio, Mariuccia, Teresa.
(In ricordo di alcune persone stimate)
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Aurelio, Mariuccia, Teresa.
(In ricordo di alcune persone stimate)
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Ho accompagnato mia madre e il suo amico Aurelio a trovare mia zia Teresa, la sorella di mia madre. Abita in Supervia, a Dego. Mia madre è la più giovane delle sorelle superstiti, Teresa porta dignitosamente i suoi 94 anni. Aurelio di anni ne ha poco più di ottanta, ma la circolazione e il diabete hanno minato severamente il pensiero, ed è triste vedere un uomo forte e pieno d’iniziativa com’era appassire lentamente, dimenticarsi, restare sempre più di sovente inebetito. Dego
Fortunatamente è sempre stata una brava persona e la malattia non l’ha cambiato in questo tratto, almeno per ora. Sorride, è cordiale, saluta con trasporto. Non chiede quasi mai niente. Il lato buffo di Aurelio, suo malgrado, è che nonostante le facoltà mentali limitate riesce perfettamente a sostenere una conversazione con uno sconosciuto: fa caldo, fa freddo, c’è siccità, non si sa più dove andremo a finire, una volta era meglio di oggi. Luoghi comuni, certo, ma che probabilmente si imparano in maniera tanto profonda da restare impressi come le facce dei nostri cari, ancor più: come le informazioni necessarie a respirare o a deglutire. E il bello è che l’occasionale dialogante non si accorge dei limiti del caro amico. Mia madre mi ha raccontato che dall’inizio dell’estate viene a trovarlo Adolfo, un vicino ottuagenario vedovo. Si siedono sotto il portico e chiacchierano e fumano. Mia madre ha provato a sedersi fra loro ed ascoltare i discorsi. Si è stupita di come non parlassero di fatto assolutamente di nulla: discorsi sconclusionati, ognuno parlava per conto suo di un certo argomento accennando brevemente a certi particolari più complessi, l’altro annuiva serio, da esperto. Poi rispondeva con un altro argomento. Eppure passavano delle mezz’ore sfuggendo la canicola. Oggi siamo arrivati nel cortile di mia zia Teresa nel tardo pomeriggio. In un lato della piazza ci sono tre sedie, su due delle quali ci sono delle vecchine all’ombra. Appena ci avvistano una delle due comincia a chiamare per nome: “Giovanni!”. Rispondo che non sono Giovanni. “Giovanni?” “No, signora, non sono Giovanni, sono il nipote di Teresa”. Intanto la vecchina si avvicina. Mia madre la conosce e le dà una voce per salutarla: “Oh Mariuccia! Andiamo bene?” E lei: “Ma chi sei? La moglie di Giovanni?”. Insomma, viene chiarito l’equivoco e chiarito soprattutto che Giovanni (che il Signore lo guardi) non c’entra nulla. Mariuccia e mia madre si salutano, si baciano le guance. Nel frattempo anche Aurelio è sceso ponderosamente dalla macchina. Si guarda un po’ in giro, sorride, avvista Mariuccia. Le si avvicina e le chiede: “E noi non ci salutiamo?”. Da notare che i due non si conoscono, provengono da due paesi, anzi, due vallate diverse. Non c’è neanche una mezza parentela di ennesimo grado di mezzo. Eppure s’abbracciano e si baciano sulle guance, si stringono con trasporto le mani, si sorridono, si chiedono come andiamo e si rispondono che le ossa, l’età, le gambe, le vene… Poi si risalutano di nuovo: è venuta mia madre ad agganciare Aurelio per portarlo via di lì, perché finché Mariuccia sta là mia zia non apre la porta. Non per altro: è che Mariuccia è noiosa, pettegola e anche un po’ bacata, e mia zia non ha tempo da perdere… Ricomposto il paesaggio magicamente mia zia compare nella fessura della porta. È piegata, cadente, vecchia, proprio vecchia, ma conserva un brillìo negli occhi proprio delle bambine sveglie, un po’ birbe, furbe. Ci fa entrare, ci salutiamo baciandoci le guance. Aurelio anche bacia e saluta. Poi si siede sul divano e s’addormenta. Mia zia ci offre caffè, vino, acqua. Poi parte subito con la descrizione dell’orto di quest’anno. Ci sono i pomodori, le melanzane, il prezzemolo. Ha fatto nascere scarola e indivia, sotto un sacco ben bagnato. Ha dell’uva bellissima, le peschette, il fico che suo figlio ha messo a dimora in mezzo al pollaio (ormai vuoto) è stato sarchiato e rinfrescato con nuova terra scura e grassa. Ha strappato per bene le erbacce, ha tolto le piante dei piselli ormai secche. Vedessi che belle zucchine che ho quest’anno. Andiamo a vedere? Non vede l’ora di uscire e mostrarti l’orto, soprattutto di farlo prima che arrivi il figlio, il quale non vorrebbe che la madre scendesse la ripida scaletta che adduce alla terrazza ben seminata e battuta, ordinata come un giardinetto, in cui Teresa passa larga parte del suo tempo. Prima di uscire si mette il mandillo sulla testa, prende il bastone: un palucco di nocciola di grosso diametro e troppo corto: ma a lei va bene così. Ci taglia un poco di insalata, ci regala uno zucchino. Poi torniamo in casa, ha voglia di raccontare il tempo passato, ma senza retorica, senza esagerare. Tutte le sue storie contengono un sorriso, storie di malattie, di fatiche, di paura, ma anche di soluzioni brillanti, dovute al caso, alla fortuna, alla fede. Il potere incombe e Teresa si difende come può. E il potere è indistinguibile: fascista, repubblichino o repubblicano. Ha litigato col generale Farina in persona, per via di un paio di vacche; avrebbe litigato o blandito camicie nere, carabinieri o guardie municipali, per il bene della sua famiglia, della sua “azienda” come oggi chiamerebbero una cascina. Oggi si ricorda di quando, d’estate, il povero Renzo suo marito non poteva dormire per il caldo, e lei aveva sempre freddo. Il figlio s’era da poco sposato e c’era una stanza vuota. Bene: avrebbero dormito separati in modo da non discutere sulla finestra chiusa o aperta. Buonanotte. A quei tempi, ricorda Teresa, non avevamo ancora la corrente. C’era il lume sul comodino e basta. E di sotto, sotto il pavimento di tavole, c’erano le bestie. E quell’anno ce n’era una che doveva “fare”, partorire. C’era da starci attenti: le vacche quando partoriscono vanno aiutate, non le si può lasciare sole in un momento così duro. Si aiuta il vitellino ad uscire legandogli le zampe anteriori e, con l’aiuto di una carrucola, si tira fuori il cucciolo. Il povero Renzo quando dormiva non sentiva niente. Doveva stare attenta lei, alle bestie, alla partoriente. Nel pieno della notte, infatti, Teresa sente un qualche rumore che le fa capire d’essere arrivati al momento del parto. Emozionata, agitata, dimentica di essere a dormire nella stanza del figlio, salta giù dal letto chiamando Renzo, Renzo (il quale non sente) e anziché mettere i piedi sul pavimento finisce a cavallo del comodino, da qui ruzzola verso il muro dove prende una testata. Grida, ma si rimette in piedi nell’oscurità assoluta. Renzo! Renzo! Niente. Fa un passo per andarlo a chiamare ma s’inciampa nel tappeto e finisce con le gambe sotto il letto, graffiandosi e incastrandosi in malo modo. Finalmente arriva Renzo col lume acceso. Cosa c’è? Ti aiuto, ti sei fatta male? Ma vai va’, lascia perdere me che io mi aggiusto. Vai a vedere la vacca piuttosto, che sta per partorire, che l’ho sentita, vai, ma sbrigati! E mentre racconta Teresa sogghigna, sorride, ogni tanto addirittura ride proprio. Da quando i preti hanno tolto la gonna, dice, andiamo sempre peggio. E poi torna ad accennare alla storia che a me piace di più, quella del maestro vagabondo, il maestro Milano, l’antifascista. Dice, sempre sorridendo, che se ci fosse ancora il maestro Milano, ci penserebbero lei stessa e lui a mettere a posto ‘Bernasconi’ e tutte le sue porcherie… Il tempo è passato, dopo alcuni convenevoli ci alziamo, risvegliamo Aurelio dal suo torpore, rimontiamo in macchina salutando perfino Mariuccia, che si alza e sorride agitando il braccio per aria, e ce ne andiamo da dove siamo venuti.
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