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UOMINI E BESTIE

8: Prospezioni dell’immaginario

 Equorum mirabilia

 

Ultima parte

Il Circo Massimo

Corse di Cavalli nell’antichità. 4

 

 

Plus ça change plus ça c’est égal

 

I Romani andavano pazzi delle corse dei cavalli, tanto che svilupparono un complesso linguaggio tecnico, come osservavo nella scheda del 1o dicembre u. s., e trassero dal mondo del Circo alcune frasi idiomatiche. Oltre i nomi degli specialisti nell’epigrafe di Capitone citata nella scheda della sett. prec., ad es. in PLIN. VIII 160: occupare: “balzare súbito al comando”, optinere: “mantenere il primo posto”, opponere: “tagliare la strada all’avversario”, effundere: “sbalzare l’auriga”. Quanto alle frasi idiomatiche, ad es.: quasi decurso spatio ad carceres a calce revocari (CIC. sen. 23) nel senso di “tornar daccapo”, ma alla lettera “tornare dal traguardo [qui detto calx forse perché l’alba linea era tracciata al suolo colla calce] agli stalli di partenza”; e mors ultima linea rerum (HOR. ep. I 16, 79; cfr. anche LUCR. VI 92) che convenientemente potremmo tradurre: “la morte è l’ultimo traguardo”. Giovenale (XI 193-201) cosí scrive:

 

Frattanto si dà il via col drappo ai Giochi Megalesi
per onorare la dea dell’Ida [Cibele] e come in trionfo
siede il pretore sul carro trainato da cavalli e, se m’è
concesso il dirlo con buona pace dell’immensa ed eccessiva calca,
oggi il Circo contiene tutta Roma e un frastuono mi colpisce
l’orecchio onde presumo la vittoria dei Verdi.
Ché se poi perdessero, mesta ed attonita vedresti
questa città come quando nella polvere di Canne giacquero sconfitti
i consoli

 

Tertulliano (spect. 22) sull’ambivalenza dell’atteggiamento della società romana verso le persone di spettacolo osserva:

 

Quale gran perversione! Sono entusiasti di quelli che poi castigano, disprezzano quelli che esaltano, magnificano il mestiere e marchiano d’infamia chi lo pratica.

 

Oltre un secolo dopo Ammiano Marcellino (rispettivamente, XIV 6, 25-6 e XXVIII 4, 29-31) ripropone lo stesso ritratto:

 

Di coloro poi che appartengono alla folla degl’ignobili e dei poveri, alcuni passano le notti nelle bettole a bere vino, altri si rimpiattano sotto i grandi parasole dei teatri, introdotti da Catulo durante la sua edilità [prima del 78a] ad imitazione della mollezza dei Campani; oppure s’accaniscono a giocare a dadi, aspirando fragorosamente l’aria nelle narici con suono rumoroso e sconcio; oppure, ciò ch’è la massima aspirazione di tutti, dalle prime luci dell’alba sino a sera, cotti dal sole o sferzati dalla pioggia, si consumano a scrutare minutamente caratteristiche e manchevolezze di aurighi e di cavalli. Certo lascia stupefatti il vedere una plebe innumerevole che segue col cuore in gola, come presa da una smania dello spirito, gli esiti delle corse dei cocchi. Comportamenti simili impediscono che a Roma si possa fare alcunché di serio e di memorabile.

 

Costoro [i plebei] tutto il tempo della loro vita lo passano a bere vino, a giocare a dadi, a frequentare postriboli, luoghi di divertimento e spettacoli, e per essi il Circo Massimo è tempio, dimora, parlamento, ossia in una parola il fulcro d’ogni speranza e desiderio: càpita spesso di vedere nelle grandi piazze, nei crocicchi, negli slarghi e nei luoghi di riunione molti gruppi contrapposti che si abbandonano ad un intenso diverbio perché, com’è ovvio, gli uni sostengono un’idea e gli altri un’altra. Fra costoro quelli che son vissuti sin troppo e risultano piú autorevoli grazie all’età avanzata giurano e spergiurano per la canizie e le rughe che lo stato andrà alla malora, se nella prossima gara il loro favorito non balzerà al comando sin dai box e nel curvare attorno alla meta starà troppo alla larga col cavallo piú interno [testo congetturale]. Sebbene ormai la piaga dell’indolenza imperi, al sorgere del giorno tanto desiderato delle corse ippiche, quando la luce del sole è ancora incerta, si rovesciano tutti in gran folla nel Circo correndo cosí a perdifiato da superare gli stessi cocchi che piú tardi gareggeranno, e moltissimi passano insonni la notte in preda all’angoscia, augurandosi che le gare abbiano un esito diverso a seconda della passione di ciascuno.

 

E finalmente al tramonto del mondo antico Cassiodoro (var. III ep. 51) suggella il carattere peculiare della follia sportiva: l’assoluta gratuità che, scomparsa poi per quattordici secoli, è tornata oggi ad imperversare, anche se i moderni frenetici non sanno di non esser stati i primi:

 

Ma questo ci pare in ogni modo l’aspetto piú stupefacente, che nel Circo gli animi cadano preda d’una passione sconsiderata e assorbente imparagonabile a quella suscitata dagli altri spettacoli. Vince la squadra dei Verdi? una parte degli spettatori si dispera; è al comando la squadra degli Azzurri? mezza città è in lutto. Senza ricavarne alcun utile urlano insulti atroci, senza aver subíto alcun danno soffrono le pene dell’inferno e si abbandonano a discussioni sul nulla con tanta passione che quasi sembrerebbe che la patria fosse in pericolo.

 

 MISERRIMUS