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UOMINI E BESTIE

8: Prospezioni dell’immaginario

 Equorum mirabilia

 

Sesta parte

Il Circo Massimo

Corse di Cavalli nell’antichità. 1

 

 

LA STORIA

 

Il circus (grecamente hippodrómos) era un edificio in cui nel mondo antico avevano luogo i circenses ludi, ossia in sostanza le nostre corse di cavalli.

Il nome viene, o dal fatto che gli spettatori si disponevano tutt’intorno per assistere allo spettacolo, oppure perché il percorso aveva forma circolare (VARR. ling. Lat. V 153-4). Il piú grande, il piú sontuoso ed il piú antico, in Roma, fu detto Circus Maximus per distinguerlo dagli altri minori sorti in séguito, poi Circus per antonomasia (come Campus il Campo Marzio).

 

 

Si racconta (PLUT. Rom. 14; VAL. MAX. II 4, 4; LIV. I 9) che quando per la prima volta si tennero le feste in onore di Conso, un’antica divinità agricola identificata poi col Neptunus Equestris, Romolo organizzasse nella Murcia vallis tra il Palatino e l’Aventino corse di cavalli invitando astutamente allo spettacolo anche i Sabini che in quell’occasione, tutt’intenti a guardare, si fecero portar via le donne.

 

 

Tarquinio Prisco, sempre a quel che si dice (LIV. I 35; DION. AL. III 68, 1), o Tarquinio il Superbo secondo una tradizione minoritaria (LIV. I 56), celebrò la presa di Apiole predisponendo incontri di pugilato e corse equestri nel medesimo luogo, ove furono erette piattaforme lignee temporanee per i senatori e i cavalieri, chiamate spectacula o fori. Vero o no che sia, in epoca imprecisabile si sarà per lo meno provveduto ad incanalare e a coprire il torrente impaludato passante per la Murcia vallis in modo da farlo diventare la spina, ossia l’asse del Circo Massimo.

 

 

 

Nel 329a (LIV. VIII 20) furono costruiti stalli di partenza permanenti, rifatti il 174a dai censori Quinto Fulvio Flacco ed Aulo Postumio Albino, i quali aggiunsero anche le sette ova (LIV. per. XLI 27) di cui si dirà oltre.

 

Nel 55 in occasione delle feste dedicatorie del tempio di Venere Vincitrice Pompeo esibí una lotta d’elefanti che travolsero le sicurezze approntate per il pubblico, onde Cesare nel 49 fece scavare a protezione un canale largo piú di tre metri, detto eurīpus, fra l’arena e le gradinate: ecco il testo di Plinio (VIII 20-21; cfr. pure SUET. Caes. 39):

 

Durante il secondo consolato di Pompeo [55a] in occasione della dedica del tempio di Venere Vincitrice venti elefanti, o secondo altri [SEN. brev. vit. 13, 6] diciotto, combatterono contro dei Getuli [abitavano i territori fra il Marocco meridionale e il deserto del Sahara] armati di giavellotti, e destò soprattutto meraviglia il comportamento di uno di loro che, colle zampe trafitte, si trascinò ginocchioni sino alla schiera degli avversari e strappò loro gli scudi scagliandoli per aria in modo tale che essi, ricadendo, compirono per il diletto della folla un cerchio come se fossero stati gettati da un giocoliere e non da una belva infuriata. Altrettanto grande fu l’impressione suscitata dal fatto che un altro fu ucciso con un colpo solo: infatti l’asta l’aveva trafitto sotto l’occhio in un punto vitale della testa. Tutti insieme gli animali tentarono una sortita, non senza danno per il pubblico, anche se erano circondati da barriere di ferro, onde Cesare dittatore in séguito, volendo rappresentare un altro combattimento come questo, fece circondare l’arena con un fossato, che poi Nerone riempí per far spazio ai posti riservati dei cavalieri. Quanto agli elefanti di Pompeo, vistasi preclusa ogni speranza di fuga si misero a supplicare il popolo chiedendo misericordia in atteggiamento pietosissimo e compiangendo la propria sorte con lamenti quasi umani, tanto che i presenti, colti da gran compassione e dimentichi della munificenza squisita mostrata verso di loro dal generale, si levarono piangenti e scagliarono ad una voce contro di lui quelle maledizioni [cfr. CIC. fam. VII 1, 3] che egli ben presto avrebbe scontato.

 

Nel 33a Agrippa collocò sette delfini bronzei sulla spina (CASS. DIO XLIX 43, 2). Due anni dopo, avendo un incendio danneggiato l’edificio, Augusto ne curò la ricostruzione aggiungendovi la tribuna imperiale (mon. Anc. IV 4) e nel 10a l’obelisco ramesside (PLIN. SEN. XXXVI 71) ora in piazza del Popolo, su cui ancora si legge l’iscrizione celebrativa dei lavori.

 

 

Cosí Dionigi d’Alicarnasso (ant. Rom. III 68, 2-4), che lo vide poco dopo la sistemazione augustea, descrive il grande monumento:

 

Quest’edificio [il Circo Massimo] era destinato a divenire col tempo una delle costruzioni piú belle e mirabili della città. È lungo circa seicentoventi metri e largo quasi centoventi. Intorno ad esso sui lati maggiori e su uno dei  minori corre un canale per la raccolta delle acque largo piú di tre metri e profondo altrettanto. Oltre il canale si leva un portico a tre piani, sull’inferiore dei quali insistono file di sedili in pietra lievemente soprelevate una rispetto all’altra come nei teatri; quelle degli ordini superiori sono invece di legno. I lati maggiori convergono entrambi su uno dei due minori, disegnato a mezzaluna, che li collega fra loro e li chiude, in modo tale che ne risulta un porticato continuo su tre lati, pari a quelli anfiteatrali, lungo millequattrocentoventi metri e capace di contenere centocinquantamila spettatori. L’altro lato corto, a cielo aperto, ospita gli stalli voltati per la partenza dei cavalli, che si aprono tutti assieme rilasciando un’unica fune. Intorno all’ippodromo corre pure esternamente un altro portico ad un piano, che nei vani degli archi ospita botteghe e sopra di esse abitazioni civili; in codesto portico si aprono in corrispondenza d’ogni bottega ingressi e scalee attraverso le quali si accede alle gradinate senza che le migliaia e migliaia di persone che entrano ed escono creino alcun ingorgo.

 

Plinio (XXXVI 102) del Circo d’epoca flavia scrive:

 

A non parlare, fra i grandi edifici della città, del Circo Massimo costruito da Cesare durante la sua dittatura, lungo oltre cinquecentotrenta metri, largo quasi centottanta, esteso con tutte le sue costruzioni su uno spazio di oltre diecimila metri quadri, capace di duecentocinquantamila posti, 

ma il passo è controverso.

Danneggiato in parte da un incendio nel 36p (TAC. ann. VI 45) e súbito riparato, impreziosito con marmi e bronzi da Claudio (SUET. Claud. 21), nel 63 fu ampliato da Nerone che, al fine di ricavare spazio per nuovi posti, eliminò l’euripo (PLIN. SEN. VIII 21), privandolo in tal modo della salvaguardia necessaria per ospitare le venationes, trasferite appena possibile al Colosseo.

L’anno seguente il celebre incendio che devastò la città e segna l’inizio tradizionale delle “persecuzioni cristiane” sorse secondo Tacito (ann. XV 38) nelle tabernae alloggiate nelle arcate del portico esterno, zeppe di un’umanità vile ricordata da molti, tra cui Giovenale (III 65, VI 588). Nell’81 la porta del lato corto sudorientale fu sostituita da un arco trionfale trifornice per celebrare la vittoria di Tito sulla Giudea (CIL VI 944). Di nuovo arso durante il principato domizianeo (SUET. Dom. 5), il Circo fu portato al suo massimo splendore da Traiano (PAUS. V 12, 6, il quale registra però la misura contrastante di trecentocinquanta metri circa, a meno che non intenda la sola spina),

 

e con minori modifiche, in particolare sotto Caracalla, tale in sostanza rimase sino a Costantino, che lo rifece (AUR. VICT. Caes. 40, 27) e concepí il progetto, realizzato da Costanzo nel 357, di collocare sulla spina un secondo obelisco (AMM. MARCELL. XVI 10, 17 e XVII 4, 12; CASS. var. III 51, 8), ora in piazza del Laterano.

Cassiodoro è appunto fra gli ultimi a parlare del Circo: un secolo prima Roma era caduta in mano ai barbari e la decadenza inarrestabile rese sempre piú precaria l’organizzazione dei ludi, limitati dai Goti nel 410 alle sole corse dei cavalli; dopo il 541 non furono piú nominati i consoli, che si assumevano il costoso onere degli spettacoli, e l’ultima gara di cui si abbia notizia avvenne nel 550 (PROCOP. bell. Goth. III 37). Nella pars orientis dell’impero invece molti secoli dopo si facevano ancora tornei quando la città nel 1204 fu stretta d’assedio dai Veneziani (J H. HUMPHREY, Roman circuses. Arenas for chariot racing, 1986).