FOGLI MOBILI
La rubrica di Gloria Bardi
ASIMMETRIA
Il parrucchiere e Kant.
Anche se ho in genere il vizietto di
raddrizzare i quadri storti, devo dire che non amo le simmetrie.
Da un punto di vista estetico le trovo
scontate, prevedibili, da un punto di vista psicologico le trovo
perentorie e anche un po’ avvilenti.
Sia detto in generale, ovviamente, con
abbondanti possibilità di eccezione. Anche questo per amor d’asimmetria.
Nell’arte non mi dispiace quel po’ di
approssimazione e casualità che sottrae l’opera al controllo assoluto.
Che la sottrae alla dittatura del suo autore e la fa esistere come
opera d’arte, sempre disobbediente.
Per abbassare il tiro, e di molto,
appartengo alla schiera di donne che, uscite dal parrucchiere,
dopo aver pagato per la messa in piega, arrivano a casa e si spettinano.
Possibilmente io mi spettino già nel
primo portone che incontro, attraverso il quale mi introduco furtiva.
Dopo la discesa ardita nei regni del
coiffeur, ora la risalita nei cieli dell’etica. O nelle sue terre.
Cosa significa “asimmetria” in senso
morale?
Significa che, ad esempio, esistono
doveri etici a prescindere dalla loro reciprocità.
Non è un pensiero scontato come
sembrerebbe a prima vista, dal momento che va in direzione contraria
rispetto al pensiero di uno dei grandi padri dell’etica contemporanea:
Immanuel Kant.
Ma non esistono pensatori indiscutibili e
questo è ciò che differenzia profondamente i riferimenti della filosofia
da quelli della religione.
Nessun testo è sacro, e meno male,
altrimenti il nostro pensiero vivrebbe di rendita o di ruminazione.
Se l’opera d’arte è sempre disobbediente,
la filosofia, quella vera, è sempre spregiudicata.
Saremo anche nani sulle spalle dei
giganti ma dalla nostra posizione, soprattutto per merito loro, vediamo
più in panoramica.
Secondo Kant solo chi è agente morale
può essere paziente morale, ovvero solo chi agisce moralmente, è
cioè capace di esercitare il discernimento morale, deve essere oggetto
delle azioni morali altrui.
Trasferito in linguaggio giuridico: solo
chi ha doveri ha diritti.
Ora, la visione di Kant, fondata sulla
dignità, taglia fuori dalla considerazione morale chiunque non eserciti
discernimento morale.
Malgrado io abbia sentito lo stesso
cardinal Bertone, introdotto a un convegno come illuminato dallo
Spirito Santo, piegare le formule kantiane a difesa dell’embrione, si
tratta di un’interpretazione scorretta: l’embrione infatti non è
soggetto morale e in Kant non si pone la questione della
“potenza”aristotelica.
Allo stesso modo, cade fuori dal rilievo
morale l’umano in situazione di marginalità (dementi, comatosi
irreversibili o simili)?
Cadono fuori dalla considerazione morale
gli animali, verso i quali è corretto, secondo Kant, esercitare solo una
generica benevolenza, per non diventare insensibili verso gli umani.
Ora, è evidente che la visione kantiana
pone dei limiti che la sensibilità contemporanea può motivatamente
varcare. E’ questa la ragione per cui ritengo irrinunciabile il
confronto con l’empirismo che parte dall’esperienza e pone al centro
l’effettivo.
Credo, l’ho ripetuto più volte e mi si
scusi per l’ennesima, che si debba porre al centro la sofferenza e in
base ad essa costituire almeno una morale “basic”.
Ogni essere capace di soffrire deve
divenire oggetto di considerazione morale, indipendentemente dalla
reciprocità.
E la capacità di soffrire è rilevabile,
salvo non si voglia seguire il peggio di un altro grande padre,
Cartesio, quando sosteneva che le bestie-automi guaiscono per motivi
meccanici ma non perché provano dolore.
Quindi ben venga un’etica asimmetrica.
Ma anche assecondare troppo la realtà può
diventare un difetto e generare simmetrie eticamente grossolane,
sintetizzabili nel proverbio: “chi la fa l’aspetti”.
Un sano empirismo va calibrato con un
altrettanto sano senso dell’idealità.
Esempio tratto dai repetita di tante
interviste tivù alla “ggente”:
“perché dovremmo far fare le moschee ai
musulmani quando loro non ci fanno fare le chiese?”.
Beh, se il motivo è questo, direi che una
civiltà che ha consolidato i suoi valori non si conforma ai criteri
altrui ma testimonia i propri indipendentemente.
O forse siamo per un “illuminismo”
condizionato?
E’ evidente la debolezza di chi fa
dipendere le proprie scelte da quelle altrui.
La funzione di una civiltà è anche
pedagogica, la libertà va testimoniata e non messa sul piatto di una
bilancia.
Così Pericle nella testimonianza
di Tucidide, a proposito della Democrazia:
“Il nostro sistema politico non compete
con istituzioni che sono vigenti altrove. Noi non capiamo i nostri
vicini, ma cerchiamo di essere un esempio.”
E’ per lo stesso motivo che Saddam,
secondo i valori di cui andiamo orgogliosi, non doveva essere messo a
morte, anche se colpevole di morte.
Quello che noi possiamo mettere sul
famoso piatto, e fa bene il governo ad agire in tal senso, è la
richiesta di una moratoria contro la pena di morte.
Facile essere giusti coi giusti!
La sfida è nell’asimmetria e, nel contempo, la carta al tornasole della
nostra effettiva convinzione nei valori fondanti la nostra
cultura.
Certo, e qui ricompare l’empirismo, nella
società multiculturale, occorre un costante negoziato tra
affermazione dei propri valori e riconoscimento delle differenze.
Il diritto deve dimostrarsi capace di
affermare e differenziare e nemmeno questo è facile ma chi ha mai
detto che siamo destinati alla facilità?
In questo senso, quindi, mi sento di
brindare all’asimmetria come criterio di responsabilizzazione morale,
non per “buonismo”, atteggiamento dannoso come pochi altri, ma per
coerenza. Per rigore. Per umiltà (non umilismo, si badi). Per
presunzione. Per un lucido senso della complessità.
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