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UNA MORTE ANNUNCIATA

  di Carla Venturino  

21 dicembre 2006  

Ieri sera “qualcuno” ha messo fine alla “vita” di Piergiorgio Welby. 

In questo momento molte persone staranno scrivendo articoli, molte di più staranno discutendo, ancora di più staranno riflettendo su “chi”, ha messo fine alla sua vita. 

Troppo semplice dire: “la mano di quel medico”.  

La malattia?  

Chi si volesse inerpicare in dubbi più sottili, potrebbe dire che a farlo morire in questo modo siano state la tecnologia, la mancanza di legislazione in materia, forse la religione, sicuramente l’ipocrisia.  

Morire è un evento naturale, così come evento naturale è nascere.  

Mi piace immaginare la vita come il percorso su un arcobaleno: si nasce, si cresce, si arriva all’apice.

Poi lentamente, dall’altra parte, si scende.  

Ha il sapore della morte “giusta” quella morte che giunge al completamento di questo arco.  

Quando abbiamo la percezione di  assistere a un evento del genere, aiutati dalla razionalità, riusciamo a vivere un  dolore  “rassegnato”, “contenuto”: sta accadendo, in un momento "giusto", un fatto inevitabile, previsto dalla natura. 

Altre situazioni, altre morti: lente o violente, di giovani e bambini.  

Qui la razionalità non aiuta: non c’è niente che possa lenire il senso di ingiustizia, di impotenza, di strappo, di solitudine, di disperazione, di lacerazione che nasce da questi distacchi. 

E poi le morti lente, dolorose e senza più speranza. La morte di Welby. 

Ha pagato sulla sua pelle il fatto di non aver voluto fare le cose in sordina.

Invece di essergli grati e debitori di averci costretti a guardare il problema per quello che è, con i “no” che ha ricevuto, ha subito la “giusta” punizione per aver obbligato le nostre coscienze a guardare dritto negli occhi  questo problema. 

Vorrei poter chiedere a tutte le persone che in questi giorni si sono pronunciate contro la sua richiesta, se sanno che cosa significhi morire e se hanno mai visto morire.  

Come si muore? Come si muore nelle case e negli ospedali?

Si muore in semplici letti, spesso senza tubi e tubicini. 

Anche se un ricovero nel reparto di rianimazione aumenta, almeno in termini di ore o di giorni, l’aspettativa di vita, raramente si sente la necessità di trasportare, di corsa, il malato terminale in rianimazione. Col metro che abbiamo usato nei confronti di Welby,  tutti i malati terminali dovrebbero essere trasportati in ipotetici centri di rianimazione. 

Mi immagino un film di fantascienza: centinaia di persone, senza più vita apparente, attaccate alle più sofisticate macchine: quella che impedisce il coma epatico, quella contro il coma diabetico, quella contro il coma renale, quella contro il dolore, la circolazione extra corporea quando la funzione cardiaca è irrimediabilmente compromessa, quella che nutre, ecc.  

Conseguenza?

Si morirebbe dopo tanto e tanto tempo.  

Avrebbe dimostrato, il genere umano, di aver vinto la morte?

Si sentirebbe, il genere umano, più rispettoso verso la vita? 

No. 

E allora, qual è il confine tra la vita da far proseguire a tutti i costi e la vita da lasciare andare?  

Da che cosa, dobbiamo farci guidare ?

Dalla religione? Dall’etica? Dalla legislazione? Dalla medicina? Dalle varie “bandiere”? 

Ognuna di loro ci dirà la sua verità, ma non sarà mai una verità inconfutabile, sia perché, probabilmente, le varie "verità" saranno in contraddizione fra loro, sia perché avremo sempre di fronte l’unicità del singolo uomo, e quello che vale per uno può non valere per l’altro. 

E’ per questa ragione che partirei dal "Rispetto" dell’uomo, del singolo uomo e della sua, consapevole, volontà. 

Partire dal Rispetto e dal Buonsenso. 

Ho parlato di ipocrisia. 

I.V.G.: acronimo conosciuto dagli addetti ai lavori e da chi, per necessità, è venuto in contatto con questa realtà.

Interruzione Volontaria di Gravidanza. Legge dello Stato. Un “fiore all’occhiello”, segno della “civiltà” di un intero Paese, autodeterminazione della donna, emancipazione femminile.  

Qualcuno si è mai pre-occupato di chiedere al piccolo embrione d’uomo, che ha in sé l’intero percorso della vita, se vuole vivere?  

Quotidianamente, con orgoglio nazionale, orgoglio femminile, laico, ci prendiamo la responsabilità di toglierli la vita.  

Lo facciamo, lui “non si lamenta”: nessuno lo ha mai sentito protestare, urlare, dire che la vita è sua, e, in quanto sua, ha  facoltà di deciderla.  

Altri decidono, altri decidono di togliergliela, e gliela tolgono. 

Al povero Welby che la implorava, che non aveva più davanti a sé “vita”, a lui, costretto all’immobilismo totale, a “vivere” tra dolori corporei, disperazione spirituale, accudimenti, macchine, a lui che chiedeva un aiuto per sospendere il tormento … non è stata concessa da una ipocrisia di fondo. 

Qui l'ipocrisia fa funzionare così le cose:  

·   interrompiamo, in regime di routine, con orgoglio o forse solo con indifferenza, la vita a chi, in salute, porta in sè il germe della vita, senza chiedergliene il  permesso e 

·   ci rifiutiamo di fare un rispettoso passo indietro lasciando nelle mani di chi è straziato dalla ferocia di una malattia che non lascia scampo, di chi non ha più volontà di vivere, di chi non ha più vita davanti a sè, la propria autodeterminazione, anche se ci implora.                                                                                                         

Non capisco 

Carla Venturino