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DA UN MONDO AMERICA-DIPENDENTE

AD UN’AMERICA MONDO-DIPENDENTE

Marco G. Pellifroni  

Riporto qui il testo di una conferenza che tenni oltre 3 anni fa per l'associazione culturale finalese Domenica Est. Si sta rivelando ancor più profetica di quanto allora pensassi (nel frattempo, il deficit commerciale USA è cresciuto del 50%: da $ 500 miliardi ad uno stimato per il 2006 di $ 750 miliardi, ossia ad oltre $ 2 miliardi al giorno!). Sul medesimo argomento terrò in gennaio una nuova conferenza, aggiornata, che sarà pubblicata su Trucioli Savonesi.

Ci eravamo abituati a pensare agli USA come alla nazione che ci aveva salvati dal nazi-fascismo, prima, e dal comunismo sovietico, poi. Gli USA erano il simbolo della nazione amica, che ci aveva generosamente aiutati a risollevarci dalle rovine dell’ultima guerra; e poco ci importava se l’Europa Occidentale, da un lato, e il Giappone, all’altro estremo del continente eurasiatico, erano diventati di fatto protettorati americani.

La presenza minacciosa tra questi due poli dello sterminato territorio dell’URSS, di potenza militare raffrontabile a quella americana, non ci intimoriva più di tanto, consci della rassicurante amicizia della grande nazione oltre-atlantica, prodiga di aiuti e del suo ombrello protettore.

Gli USA erano all’epoca una nazione auto-sufficiente, sia come materie prime, minerali ed energetiche, sia come tecnologie. Il miracolo americano non ha cessato di stupirci per decenni: le sue risorse apparivano inesauribili, a partire dal poderoso dispiegamento di mezzi militari ed armamenti durante l’ultima guerra, sino alle astronomiche capitalizzazioni del suo simbolo economico, Wall Street. E quando i comunisti contrapponevano alla nostra ammirazione per gli USA un presunto “paradiso sovietico”, venivano perlopiù ridicolizzati. Il mito di un’America solidale e sollecita ai nostri bisogni non veniva minimamente intaccato dal modello bolscevico. Del resto, sarebbe stato contraddittorio considerare con pari interesse due ideologie così diverse; anzi, quella americana non ci appariva neppure come una ideologia, riservando questo termine soltanto al comunismo, che si sforzava di calare idee sociali ed economiche astratte nel mondo reale, mentre gli USA sembravano fare esattamente l’opposto, constatando pragmaticamente quali sistemi di produzione funzionano meglio, per adattarvisi di conseguenza, in una versione socio-economica del darwinismo. L’America sembrava constatare il corso naturale degli eventi, per poi estrarne una teoria, il capitalismo, che asseconda le pulsioni egoistiche dei singoli nella convinzione che la loro moltiplicazione equivalga al benessere generale (secondo i criteri del Mandeville: “private vices, public virtues”). Il comunismo sovietico era un’utopia la cui imperfetta attuazione trovava conferma nella differenza dei livelli di vita al di qua e al di là della cortina di ferro, che nei decenni della guerra fredda trattenne i popoli est-europei prigionieri in casa loro.

Entrambi i sistemi, comunque, sembrarono in grado di funzionare, ciascuno nella propria area di influenza, finché, con una velocità insospettata, il sistema comunista crollò su se stesso. Di riflesso, quasi automaticamente, il sistema contrario, capitalistico, apparve come l’unica alternativa possibile; e tanto più indiscutibile, quanto più i paesi dell’area sovietica, e soprattutto l’URSS, precipitarono nel baratro della dissoluzione sociale ed economica. Nessuno più osò parlare di comunismo, se non di un astratto comunismo “diverso”, ad es. trotzkysta, mai sottoposto alla prova dei fatti; mentre, da una dozzina d’anni, il neoliberismo, ossia la forma più estrema di capitalismo, pretende di applicarsi in ogni angolo del mondo, qualunque sia la cultura pre-esistente, come unica panacea cui ricorrere contro ogni tipo di male, molto spesso indotto dalla puntuale applicazione delle regole stesse del capitalismo.

Proprio in questi anni, peraltro, l’atteggiamento dell’America è andato mutando con accelerazione crescente, in conformità al suo mutato status sullo scenario internazionale. In sostanza, gli USA, sino agli anni ’80 necessari al mondo occidentale, in termini politici, economici e militari, hanno finito per capovolgere il proprio ruolo, finendo col diventare, di fatto, dipendenti da quel mondo che aveva sino allora avuto bisogno di loro. E ciò proprio in conseguenza dell’adozione indiscriminata, dentro e fuori i propri confini, della pratica neoliberista, spacciata come dedotta dalla pratica ed ossequiosa delle sue esigenze.

Vediamo di giustificare questa affermazione.

I propugnatori del neoliberismo, ossia le istituzioni che ne incoraggiano e gestiscono la diffusione nel mondo sono due gendarmi finanziari partoriti a Bretton Woods, Delaware, nel lontano 1944, quando erano ormai chiare le sorti della guerra. Uno è la  World Bank (WB), creata per erogare prestiti alle nazioni a debole economia (debole secondo i parametri occidentali); mentre l’IMF (International Monetary Fund) vigila sulla congruità dei rapporti di cambio monetari, affinché non sconvolgano le valute più deboli ed esposte ad attacchi speculativi. I rapporti di cambio furono allora fissati rispetto al dollaro, mentre quest’ultimo veniva agganciato, salvo minime fluttuazioni, al valore dell’oro, la cui disponibilità era garantita dalle riserve di Fort Knox. Questo ordine finanziario mondiale si protrasse senza scosse sino al 1971, allorché Nixon, con le riserve auree prosciugate dalla guerra nel Vietnam, decise di sganciare il dollaro dall’oro, offrendo in garanzia la credibilità della nazione America. Fu quella una decisione esiziale, destinata ad incidere in modo devastante sulle economie dei paesi più deboli, e non solo quelli.

La mancanza di qualcosa di fisico e concreto cui far riferimento, l’assurgere della moneta di un solo stato al rango di riserva valutaria destabilizzò tutte le altre divise, lasciando indenne soltanto il dollaro dalla verifica del mercato; ossia proprio del dio mercato al quale il liberismo tanto ama appellarsi come al giudice supremo, naturale equilibratore di ogni tensione valutaria. Gradualmente, affrancato da ogni riferimento al PIL americano, in quanto espresso nella stessa valuta, il dollaro diventò una sorta di divisa virtuale. Infatti, le riserve auree garantiscono la solvibilità di una nazione; in sua assenza, il valore di scambio è proporzionale alla fiducia accordatale dalle altre nazioni, con un meccanismo simile a quello per cui ogni cittadino accorda (o meglio, accordava) fiducia alla moneta del proprio paese. La generale fiducia riposta nell’economia americana continuò ad attribuire al dollaro un alto valore di scambio, a prescindere dalle vicende interne dell’economia stessa. Questo stato di cose finì col “viziare” i consumatori americani, in una spirale perversa, che vide le industrie USA (eccezion fatta per quella delle armi, vendute e spesso imposte a paesi terzi) sempre meno competitive con quelle straniere, specie europee ed estasiatiche, i cui prodotti invasero sempre più il mercato statunitense. Al tempo stesso, grazie alla libera circolazione del denaro (oltre che delle merci), crebbe a dismisura il flusso di denaro proveniente da investitori esteri. Mentre gli americani si lanciavano in un’orgia consumistica senza precedenti, europei e giapponesi inviavano i propri risparmi sui mercati finanziari USA, bilanciando, peraltro in misura sempre più esigua, la vertiginosa lievitazione del disavanzo commerciale americano, salito da circa $ 100 miliardi nel ’93 a 180 nel ’97 e poi schizzato a 450 miliardi nel 2000.

Le multinazionali, dal canto loro, trasferirono i loro stabilimenti di produzione in paesi dove la carenza di diritti sociali e civili fosse garantita da regimi dispotici, anche comunisti (vedi Cina). Vennero in tal modo stravolte le economie locali con investimenti mirati a profitti a breve termine  e pronti a ritirarsi in tutta fretta al girar del vento, causando il crollo dei paesi ospiti. Il “girar del vento” può esemplificarsi nel raggiungimento di un surplus produttivo, quale quello in atto, a livello mondiale, da oltre due anni (con vistosi precedenti in Asia e in America Latina).

E’ stato questo uno dei primi “regali” della globalizzazione. Eppure, la libera circolazione di capitali e merci, ad un primo approccio apparirebbe una meta desiderabile, soprattutto per il reiterato accento sull’aggettivo “libera”: chi si dichiarerebbe a priori contrario alla parola libertà, un valore per cui innumerevoli persone si sono immolate nei secoli, e che è l’esatto opposto di parole odiose come tirannide, dispotismo, oligarchia? Chi muoverebbe un dito a favore di termini così desueti come barriere doganali, protezionismo, restrizioni all’import-export di merci e servizi? Eppure certe parole, come libertà, appunto, rimangono, a dispetto delle apparenze, sempre appannaggio delle solite oligarchie, dei soliti despoti o imperialisti, che fingono oggi di usarla a favore delle moltitudini.

Ma libertà da che cosa? Innanzitutto, da ogni controllo statale, da ogni regola democratica: insomma, privatizzazione e deregulation, in altri termini, marginalizzazione dello Stato. E, paradossalmente, sono proprio gli USA ad offrirci il quadro di una società che ha ereditato le caratteristiche dello Stato: quelle negative, come improduttività e irresponsabilità finanziaria; e quelle positive, keynesiane, di sostegno della domanda nei momenti di surplus produttivo, come approfondirò più oltre.

E inoltre, libertà di fare che cosa? Di produrre merci, nelle cosiddette “zone speciali” (sweatshops), ricavate in paesi con scarso o nullo sindacalismo, scarse o nulle leggi ambientali, e, trattandosi ovviamente di paesi poveri, beneficiari di cospicui finanziamenti dalla WB o dall’IMF. Queste sono le condizioni necessarie e sufficienti per stimolare il trasferimento delle attività produttive dai paesi ricchi e almeno in parte sindacalizzati verso compiacenti paesi esotici che, per accogliere i nuovi “datori di lavoro” devono sottostare ai precisi diktat di WB ed IMF, e seguire i rigidi canoni del WTO (World Trade Organization), ossia il terzo gendarme neoliberista: per prima cosa, indirizzare le produzioni all’esportazione, lasciando andare alla deriva quelle locali e convertendo in conformità terreni e pratiche agricole. In questo modo, milioni di contadini delle nazioni dette “scarsamente produttive” sono alla fame, mentre le loro stesse nazioni esportano nei paesi ricchi, USA in testa, prodotti più redditizi (per i proprietari terrieri e per le multinazionali) dei prodotti agricoli tradizionali. Nel contempo, sempre per tener fede agli impegni con WB ed IMF (e cioè restituzione dei prestiti concessi per simili stravolgimenti, oltre agli interessi), si procede ad una rapida privatizzazione di ogni attività, comprese quelle tradizionalmente di competenza governativa, come assistenza sanitaria, istruzione, trasporti pubblici, cui vengono a mancare i sussidi statali; oltre ad abolire qualunque forma di sussidi alle attività locali. Formula perfetta per rendere i ricchi sempre più ricchi e i poveri ancora più poveri, anzi miserabili. E sono poi questi miseri che spendono gli ultimi soldi per attraversare i deserti e stiparsi sui barconi verso le coste della speranza, venendo così a turbare le nostre coscienze. Noi li affrontiamo come fossero alieni, possibili usurpatori del nostro benessere, straccioni colpevoli di essersi moltiplicati in misura superiore alle capacità di sostentamento delle loro terre. Ovvero, all’opposto, li accogliamo per svolgere a casa nostra le mansioni per cui si stenta a trovare personale locale disponibile. In altri termini, o spostiamo le aree produttive nei paesi poveri o lasciamo che i poveri vengano a produrre da noi.

Per meglio spiegare come si formano queste avanguardie di disperati, lascio la parola a Vandana Shiva, una scienziata indiana che da anni si batte contro la sfrenata occidentalizzazione del suo paese. [Lettura di brani da “La globalizzazione non è inevitabile”, conferenza al Teatro 2 di Parma del 29/11/2000].

Eppure, nonostante tutto, il neoliberismo si presenta oggi con la sicumera con cui si propugnavano nel secolo XVIII le “magnifiche sorti e progressive” dell’Illuminismo. Con in sovrappiù l’arroganza della nazione guida che dichiara non esservi alternativa, “visto cosa è toccato all’utopia comunista”. Non sfiora i suoi governanti il sospetto che il neoliberismo non sia che un’altra utopia che aspetta soltanto il compiersi delle conseguenze dei suoi atti. Conseguenze che stanno maturando con la rapidità di cui è capace il secolo XXI.

Prima fra tutte la crescente constatazione che gli USA sono diventati mondo-dipendenti, mentre fino agli anni ’80 era stato il mondo ad essere USA-dipendente. Ciò in quanto la loro funzione principale è passata da quella di produttori di merci, destinate al mondo intero, a quella di consumatori di merci altrui e di stampatori di carta moneta. Gli USA sono diventati il paese di bengodi, le cicale del mondo, con le formiche, ossia il resto del pianeta, che li pregano di accettare le proprie provviste, per sostenere una produzione in largo esubero (in conseguenza dei dettami di WB ed IMF), a fronte di una domanda calante. E poco importa se in cambio ricevono banconote verdi, gran parte delle quali provenienti proprio dai risparmiatori o dai governanti degli stati formiche. Giova ricordare che gli USA hanno bisogno, per mantenere il proprio prodigo livello di vita, di oltre 1 miliardo di dollari al giorno di entrate finanziarie per coprire il disavanzo della propria bilancia commerciale. E a proposito della domanda calante, che da almeno un paio d’anni preoccupa gli economisti occidentali, vorrei ricordare che Henry Ford, certo non sospetto di idee di sinistra, aveva capito che la domanda cresce solo al crescere dei salari, come già studiato da vari economisti, da Malthus a Keynes, oltre che, ovviamente, dagli economisti socialisti degli ultimi 2 secoli: in conformità a questo principio, Ford raddoppiò i salari dei suoi operai e ne ridusse le ore lavorative, dividendo in pratica con loro gli utili dell’azienda. E fu da allora, 1914, che i lavoratori americani divennero i più pagati del mondo, con ricaduta sui consumi interni e l’economia. Certo, si tratta di un estremo che cito soltanto come esempio, per spiegare che produrre, anzi sovra-produrre, merci in terre esotiche con salari di sopravvivenza non aiuta certo a far crescere la domanda globale, né in quei paesi né nei paesi ricchi, dove l’emorragia di aziende non può che causare disoccupazione: tenere il freno sui salari determina un freno ai consumi e accresce il numero di disoccupati. E non insisto sui danni che la sovrapproduzione causa all’ambiente, specie in nazioni passate in meno di una generazione da un’economia agricola e tribale ad una di urbanizzazione ed industrializzazione selvagge.

Ma torniamo agli USA di oggi ed al loro tenore di vita, reso possibile dalle suddette elargizioni estere, enormemente superiori al debito estero dei paesi poveri, che invece devono sottostare alle regole dissestanti di WB ed IMF e dissanguarsi per ripianare deficit commerciale e relativi interessi. Insomma, l’unica nazione al mondo che nessuno sollecita ad onorare il proprio debito è l’America: privilegio dovuto all’avere la zecca, di fatto sovra-nazionale, in casa propria. L’industria e l’agricoltura americana, di conseguenza, stanno languendo da anni, con notevole aumento della disoccupazione e crescente divario di redditi tra ricchi e poveri, la cui fascia sta assorbendo quote crescenti della stessa classe media, pur consentendo loro di partecipare, in misura proporzionalmente ridotta, al festino consumista generale (l’odierno panem et circenses di romana memoria).

D’altro canto, gli USA, patria del capitalismo neoliberista, fautori della globalizzazione, per non subire il collasso, hanno dovuto paradossalmente ripristinare tariffe protettive per l’acciaio, vista la crisi della siderurgia nazionale, e addirittura sovvenzioni all’agricoltura onde rendere competitivi quei prodotti con i quali monopolizzare le colture del Terzo Mondo. Rispetto agli altri stati, nei quali è fatto assoluto divieto di erogare sussidi, quelli americani si chiamano furbescamente “incentivi”. Peraltro, non è più chiaro, se mai lo è stato, il significato del PIL americano, espresso ovviamente in dollari, specie dopo il domino di falsi nei bilanci delle maggiori corporations, Enron in testa, e delle colluse società di certificazione, come Andersen. In effetti, l’America si sta “ispanizzando”, ossia organizzando la propria esistenza sul modello della Spagna cinque e secentesca, grazie al flusso di ricchezza proveniente dall’estero; e se i ricchi di allora sperperavano questa manna gratuita in una pletorica servitù o in bravi di manzoniana memoria, gli odierni plutocrati americani fanno altrettanto con schiere di avvocati, brokers, guardie private. E dire che essi discendono culturalmente da economisti liberali come Adam Smith, che alla fine del ‘700 ammoniva: “Un uomo si arricchisce utilizzando una moltitudine di operai; diventa povero mantenendo una moltitudine di servitori.”

Ma i nodi stanno venendo al pettine, e gli investitori e creditori stranieri cominciano a ritirare la propria fiducia, ossia i propri soldi, espressi in una divisa la cui solvibilità, un tempo indiscussa, comincia a non essere più tanto sicura. Il processo avviene lentamente, quasi alla chetichella, perché i primi ad essere danneggiati da una fuga repentina dal dollaro sarebbero gli stessi “fuggitivi”.

L’Europa unita, d’altro canto, sta dando segni di crescente autonomia politica e tecnologica, e in parte militare, nei confronti della madrina di ieri. L’America, soggetta episodicamente a tentazioni isolazioniste, eredità di un secolare passato di prosperità autogena, si accorge oggi di dipendere dal mondo per il mantenimento del suo tenore di vita; e si accorge anche che il mondo è sempre meno disposto a lavorare e a sfruttare le proprie risorse naturali per permettere agli americani di “fare gli americani”.

Di qui il nervosismo della classe dirigente USA, della white overclass, che deve in qualche modo dar segno di servire a qualcosa, magari a combattere un terrorismo, peraltro rivolto soprattutto contro gli USA stessi, o a scovare in “nazioni-canaglia” fantomatici depositi di armi di distruzione di massa. Ed ecco allora il teatrale dispiegamento di uomini ed armamenti di altissima tecnologia contro paesi smisuratamente più deboli ed arretrati, la cui unica arma di difesa è, appunto, il terrorismo o, dopo l’occupazione, la guerriglia e le imboscate. E ben sappiamo che tanto l’aviazione USA è efficiente contro stati privi di contraerea quanto il suo esercito è inadatto come forza di occupazione di territori ostili. Inoltre, anche queste guerre e guerriglie hanno costi tutt’altro che trascurabili, che tendono a dissanguare ulteriormente il bilancio federale americano. Eppure, nonostante un disavanzo di quasi $ 500 miliardi, Bush ha richiesto di innalzare ulteriormente il già astronomico budget militare (oltre $ 250 miliardi), dopo alcuni anni di riduzioni, seguiti al crollo del regime sovietico ed alla fine della guerra fredda.

Per tutte queste operazioni belliche, gli USA cercano la solidarietà, sempre più riluttante, dei due antichi protettorati (Europa e Giappone), che sentono ormai sfuggir loro di mano. Tutto ciò mentre, dopo quasi 15 anni di regressione e di sfacelo politico e sociale, seguiti all’illusione della chimera neoliberista, come reazione opposta all’eccesso comunista, la Russia sta riacquistando vigore, con grande preoccupazione dell’America, così geograficamente lontana da un’Eurasia energeticamente, economicamente e politicamente autonoma, almeno in prospettiva.  Un’America bisognosa dell’Eurasia, in quanto non più in grado di sostenere i propri cittadini negli agi cui sono stati da almeno un secolo abituati, può essere, lei sì, molto destabilizzante, in quanto tentata di prendere velleitariamente con la forza quanto potrebbe venirle prossimamente negato a fronte di un dollaro di dubbia solvibilità. Sarebbe davvero interessante vedere che valore avrebbe la valuta USA nel caso un nuovo accordo monetario internazionale ne imponesse un riaggancio alle riserve auree. Abbiamo visto che la principale funzione degli USA oggi, con una domanda globale in ristagno, è quella di consumare merci, ossia di drogare la domanda; il che sarà possibile soltanto finché persisterà il flusso monetario mondiale verso il sistema finanziario americano. Questo meccanismo è palesemente aleatorio, ed è solo questione di tempo perché mostri tutta la sua precarietà. Quando la bolla esploderà, e il dollaro sarà scambiato per il suo valore reale, anche gli americani cominceranno a farsi i conti in tasca, come chiunque altro, e cesseranno, più nolenti che volenti, di comportarsi come i pensionati del mondo.  

Marco G. Pellifroni 

Finale Ligure, 6 luglio 2003 

Qualche consiglio bibliografico: 

Jean Ziegler, La privatizzazione del mondo, Marco Tropea Ed., 2003

Emmanuel Todd, Dopo l’impero, Marco Tropea Ed., 2003

Chalmers Johnson, Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti Ed., 2001

Vandana  Shiva, su AA.VV., Biobugie e Tecnoverità, Fratelli Frilli Ed., 2001

Jeremy Rifkin, Ecocidio, Mondatori Ed., 2001

Jeremy Rifkin, Economia all’idrogeno, Mondatori Ed., 2002