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UOMINI E BESTIE

8: Prospezioni dell’immaginario

 Equorum mirabilia

UOMINI E BESTIE Quarta parte

 

 

 

Una cupa “leggenda metropolitana”, come suggerisce di definirla Lowell Edmunds, s’incontra con diversi particolari in varii autori (AESCH. in Tim. 182, e schol. Vat. Laur. Bgmq. ad l.; ARISTOT. fr. 611 ROSE ex cod. Vatic. 997 Bombyc. s. XIII; DIO CHRYS. ad Alex. XXXII, 78; SUID. s. v. Paríppon kaì kórē, p 655): si tratta di un tal Ippomene, l’ultimo dei Codridi (scolio), il quale, avendo sorpreso la figlia Limonide col suo amante, la rinchiuse insieme ad un cavallo affamato, che la uccise, o anche la divorò, dopo averla violentata (Suida); ovvero l’amante era proprio il cavallo (Dione). Non so quanto siano convincenti i tentativi d’interpretazione antropologica oggi di moda.

La distanza metodologica per certi versi incolmabile che ormai separa la scienza moderna dall’antica, dalla quale pur essa discende, ben si coglie riflettendo su questo passo di Aristotele (hist. an. 605a9-11), che da un’osservazione empirica impeccabile procede a conclusioni oggi inammissibili:

 

I cavalli si dilettano dei prati e dei luoghi palustri; infatti bevono l’acqua torbida , e se è pura, la intorbidano mescolandola collo zoccolo

 

In realtà, per noi i cavalli non mescolano l’acqua collo zoccolo prima di bere perché amino il torbidume, bensí perché conservano un comportamento atavico dei tempi della vita selvaggia, che so, come i cani che girano più volte su stessi prima d’accucciarsi a dormire.

Fra gli antichi breeds, i Greci lodano i Tessali in primo luogo, i Traci, gli Etoli e gli Acarnani, i Romani i purosangue di Spagna, Germania e Gallia, ma soprattutto i Berberi di Numidia. Cavallerizzi celebri furono gli Sciti e i Parti. Gl’impieghi erano di due tipi, dinamici e zootecnici. I primi sono ben sintetizzati da Varrone (re rust. II 7, 15): alii sunt ad rem militarem idonei, alii ad vecturam, alii <ad> admissuram, alii ad cursuram (“Alcuni cavalli si diputano a vettura, alcuni a coprire, alcuni a correre, altri al carro, i quali diversamente si deono addottrinare a’ loro uffici”: Piero de’ Crescenzi, Trattato dell’agricoltura, nel volgarizzamento trecentesco), dei secondi ricorderò le strampalate indicazione mediche sparse disordinatamente nei ll. XXVIII-XXX della Naturalis historia pliniana, provenienti da Senocrate, Anassilao, Giuba, Sestio Nigro, Celso e altri, poi le corde degli archi e i cimieri degli elmi dalle criniere, il concime, il latte; non risulta venissero invece macellati in vecchiaia come il povero Gondrano della Fattoria degli animali.

Le molte malattie erano oggetto di una disciplina specifica, che i Greci e i Latini chiamavano rispettivamente ippiatrica e mulomedicina. Il Corpus hippiatricorum Graecorum, compilato nel IX sec. a Bisanzio e pubblicato fra il 1924 e il ’27 a c. di ODER e HOPPE presso Teubner in 2 voll., raccoglie estratti di molti autori, i piú noti dei quali furono Eraclide di Taranto (Ia), Eumelo di Tebe (IIex.p), Absirto di Prusa o di Nicomedia in Bitinia (IVin p.) e Ierocle (seconda metà del IVp). Nel I vol. sono compresi gli Hippiatrica Berolinensia, nel secondo i Parisina, i Cantabrigensia, i Londinensia, gli Excerpta Lugdunensia e i frr. di Anatolio e di Timoteo di Gaza. Gli altri cinque trattati giunti sino a noi sono latini:

1.     le Curae Boum di Gargilio Marziale (IIIp), che si occupa di bovini, come suggerisce il titolo, ma anche di muli e cavalli;

2.     il De veterinaria medicina di Palladio, scoperto nel 900, d’età ignota ma comunque tarda, estratto principalmente da Columella;

3.     l’Ars veterinaria di Pelagonio, della metà del IV sec.;

4.     la Mulomedicina Chironis, del medesimo periodo, Chirone essendo ovviamente uno pseudonimo;

5.     la Mulomedicina di Vegezio, senz’altro il trattato migliore, composto nel tardo IV sec.

Tra parentesi, veterinaria significa in origine patologia e cura dei morbi delle bestie da tiro, dette veterinae, a vehendo secondo l’etimo catoniano di PAUL. ex FEST. 507 LINDSAY, poco sostenibile, oppure da vetus in quanto gli esemplari anziani erano tolti dalle corse e messi al lavoro.

 

Sarebbe troppo lungo ricordare i ruoli nel mito; limitandoci ad un frettoloso e incompleto elenco: le quadrighe divine, di Febo, Selene e Plutone, e la biga di Ares trainata da Fobo e Demo, che sono poi i due satelliti del pianeta Marte (e piú spesso i suoi figli); i Centauri, mezzi uomo e mezzi cavallo, figli delle puledre del Pelio e di Centauro, a sua volta figlio d’Issione e della falsa Era; la contesa fra Atena e Posidone per il patrocinio di Atene e il particolare rapporto con Posidone, o Nettuno-Conso in Roma, e coi Dioscuri; i Sileni ippomorfi del corteggio di Dioniso; il cavallo Arione, figlio di Demetra e Posidone congiuntisi in forma equina; le antropofaghe cavalle di Diomede tracio, punito da Ercole nelle sue fatiche; Balio e Xanto, i magici corsieri di Achille, e il simulacro ligneo opera di Epeo che fu fatale ai Troiani nella saga iliadica; il mito di Pelope, la cui colpa nella conquista d’Ippodamia, insieme con quella del padre Tantalo, stà alla radice degli orrori della casa degli Atridi; Pegaso e Bellerofonte...

 

In ambito cultuale fu oggetto di un’adorazione specifica, secondo Malten, quale dio dei morti e animale profetico. Pertev Boratav ha raccontato in suo libro, le Aventures merveilleuses sous terre et ailleurs de Er-Töshtük le géant des steppes (trad. fr., 1965), i magici poteri del cavallo psicompo Shal-Kuyruk nell’epopea chirghisa, che ci guida immediatamente all’originaria dimensione della simbologia ctonia, ossia lo sciamanesimo. Un relitto, probabilmente inconscio, di tutto ciò nella figura del cavallo dell’altrove nella strampalata pièce teatrale di Cocteau, Orphée (1926). Val la pena di ricordare l’ipotesi di Krappe (La génèse des mythes, 1952), che il termine fr. cauchemare, ingl. nightmare, “l’incubo”, si debba connettere al ted. Mahre, la giumenta, a sua volta al lat. mors mortis. Questo detto, non si può non citare l’Apocalissi (6, 8):

 

et ecce equus pallidus: et qui sedebat desuper, nomen illi Mors et infernus sequebatur eum, et data est illi potestas super quattuor partes terrae, interficere gladio, fame, et morte, et bestiis terrae.

 

I Germani si figuravano le divinità fluviali in forma di cavallo, e chissà che non sia possibile ritessere il tenue filo delle comuni origini indeuropee nella fonte Ippocrene, sacra alle Muse, scaturita da un colpo dello zoccolo di Pegaso. Il piú solenne rito braminico era il sacrificio del cavallo, di cui la storia mitica in Mahābhārata XIV 1-15, e nell’antica Roma si chiamava “cavallo d’ottobre” quello immolato il 15 di quel mese in onore di Marte nel Campo Marzio, in una cerimonia che sir James Frazer nel Ramo d’oro interpretò come festa dello spirito del grano. I Celti principalmente lo veneravano e potrebbero esser stati loro a tracciare su una collina del Berkshire, intorno all’inizio dell’età del ferro, l’incredibile immagine del White Horse of Uffington in onore della dea Epona (si noti la corradicalità con Eporedia cit. nella prima scheda sui cavalli).

 

 

 

A volte nella letteratura diventa un emblema disturbante, cosí il diabolico corsiero di Metzengerstein di Poe, in parte nel Cavaliere dal cavallo bianco, l’ultima novella di Storm, ed anche nel Cavaliere di bronzo, lo straordinario poema di Puškin composto nel 1833, in cui la statua equestre di Pietro il Grande assume per il povero protagonista una valenza ominosa e inesorabile. In passato poi i coscienziosi maestri facevano spesso studiare a memoria agli svogliati allievi (tra cui chi scrive) la Leggenda di Teodorico:

 

E d’un tratto al re da canto
Un corsier nero nitrí.
Nero come un corbo vecchio,
E ne gli occhi avea carboni.
Era pronto l’apparecchio,
Ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
E si misero a guair,
E guardarono il signore
E no ‘l vollero seguir.
In quel mezzo il caval nero
Spiccò via come uno strale
E lontan d’ogni sentiero
Ora scende e ora sale:
Via e via e via e via,
Valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorría,
Ma staccar non se ne può.

 

Altre volte ha tratti piú benigni, ad es. nella bella narrativa western di Zane Grey, James Oliver Curwood e Mari Sandoz, o addirittura s’incarica della dieghesi in prima persona, come il cavallo di Buffalo Bill in A Horse’s Tale di Mark Twain. Calvino nelle Lezioni americane cita Leopardi (Zibaldone, 27 ottobre 1821) e Galileo (III vol. delle Opere astronomiche, a c. di Albèri, p. 323), che identificano colla velocità del cavallo la velocità della mente, il discorrere col correre come benissimo dice il secondo, ossia l’intelligenza, ed è ovvio che ci siano i lenti Frisoni da tiro e i Berberi rapidi come il vento. Se il mito letterario piú alto è certo nel Fedro (246a-249d), il piú raffinato è in questo magnifico frammento di Anacreonte (72 PAGE PMG), che c’introduce ad un’altra simbologia, il cavallo del desiderio:

 

Tracia puledra, perché mai,
bieco a me guatando,
fuggi impietosa? Credi
che d’amor non abbia alcuna arte?
Sappilo, ben potrei
metterti la mordacchia,
a briglia tenerti ed incurvarti,
intorno alla meta della corsa.
Ora pasci nei prati,
springhi leggera e ti balocchi,
perché destro fantino esperto
ancor non hai che ti cavalchi”.

 

Orazio (car. II 5) si provò in una graziosa imitazione.

 

Neppure un cenno si può invece fare in queste note delle innumerevoli figurazioni nell’arte antica, perché il tema iconologico per la sua vastità richiederebbe un impegno a parte. Nomi di cavalli se ne conoscono molti: oltre quelli mitici detti sopra e Bucefalo, Incitatus fatto senatore da Caligola, El Morzillo di Cortéz, Alfana di Gradasso e Rabicano di Ruggiero nell’Orlando Furioso, Ronzinante di don Chisciotte, Roan Barbery di Riccardo II in Shakespeare, Copenhagen del Duca di Wellington, e poi tutti i grandi corridori degl’ippodromi, ma il discorso ci porterebbe troppo lontano.

 

Il cavallo fu sempre in passato uno status symbol, dai nomi propri dei nobili Greci composti con -hippo o hippo-, ai cavalieri della Tavola Rotonda, al cortigiano di Castiglione, che dev’essere “perfetto cavalier d’ogni sella, ed [...] aver cognizion di cavalli e di ciò che al cavalcar s’appartiene” (p. 117 Maier 1955), al White Horse dell’insegna araldica di Brunswick, Hanover e Kent, tanto da diventare emblema d’elezione della vanità in questo straordinario contemptus mundi tratto dalle Rime (IV 2 dell’ed. pisana) del Tasso:

 

È vanità quanto piú sembra adorno,

e quanto al senso piú diletta, e piace:

vano il circo e le mete, a cui d’intorno

vanno i cavalli e il corso lor fallace.

 

Molti eroi dei romanzi d’appendice andarono in rovina per le scommesse sui cavalli, molti generali montati su destrieri indomiti portarono al massacro i loro soldati, molti governanti si fecero spontaneamente tributare dal popolo l’onore dell’equus, come dicevano i Latini, ossia della statua in arcioni, ma oggi i tempi sono cambiati: i cavalli non sono più nemmeno a dondolo, ma di Frisia, o d’acciaio (anche se nessuno si sognerebbe più di chiamare così la bicicletta), o vapore, o sono i Troian horses che minacciano i nostri computer. La tecnica ha trasformato in bibelot anche chi fu il collaboratore più devoto della nostra umbratile e faticosa esistenza.

 

MISERRIMUS