Si sta attuando un’accelerazione preoccupante dell’aggressione dell’uomo al corso naturale dei fiumi
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Marco G. Pellifroni

Appuntamento con l’acqua (H2O), come anticipato nel mio ultimo articolo.

Assieme all’aria in movimento (vento), l’acqua fornì la prima forma di energia meccanica di cui l’uomo seppe avvalersi: mulini e navi a vela datano a ben prima della nostra era. Mentre le seconde seguivano il corso dei venti, i primi erano ben saldi al suolo e quindi potevano fornire il loro servizio soltanto in loco. Sia questi che quelle tolsero dalle spalle di uomini e animali parte della loro fatica per solcare i mari, sollevare acqua dai pozzi o macinare cereali.

Il problema era che l’energia non poteva essere trasportata dove maggiormente serviva, e cioè nel cuore delle città o nei sobborghi industriali. La soluzione giunse con la scoperta dell’elettricità, la cui originale funzione precipua fu appunto quella di vettore di energia dai luoghi di produzione a quelli di consumo. Per lungo tempo l’energia prodotta e quella consumata furono congrue, in quanto all’energia meccanica delle turbine corrispose perlopiù energia meccanica utilizzata dalle fabbriche per azionare telai e macchine varie. Col tempo l’utilizzo si estese a forme congrue non più con l’energia meccanica di partenza, bensì con l’energia elettrica stessa: illuminazione, frigoriferi, radio, TV, computer. Usi cioè per i quali l’energia elettrica era insostituibile, rispettando pertanto il sano principio di usare un’energia nobile, come quella elettrica, per usi altrettanto nobili. La “perversione” iniziò con l’uso di energia elettrica per usi termici, ossia con l’uso più “vile” di un’energia nobile: vile in quanto, a differenza di energia meccanica, elettrica, potenziale, cinetica, chimica, non è trasformabile completamente, neppure in teoria, in lavoro utile. Si cominciò con apparecchi ad usi promiscui, come lavatrici e lavastoviglie, in cui circa 1/6 del consumo è meccanico, e quindi congruo, mentre i restanti 5/6 servono per riscaldare l’acqua, col conseguente spreco di energia elettrica nobile per un uso vile. Nel caso degli scaldacqua elettrici, lo sperpero è totale, così come nel caso di riscaldamento domestico elettrico (a meno di utilizzare pompe di calore): è ben vero che nemmeno una minima frazione dei kwh impiegati manca di trasformarsi in calore, in quanto quest’ultimo rappresenta l’ultimo stadio di degradazione dell’energia, sotto cui non è possibile scendere, ma una produzione più congrua vorrebbe che il calore per il riscaldamento di acqua e/o ambienti venisse prodotto da una combustione (scaldabagno e caldaia a gas).

Vediamo ora di risalire, letteralmente, a monte, per vedere cosa succede nella centrale idroelettrica da cui partono i cavi ad alta tensione giù giù verso le utenze. Si cominciò col costruire sbarramenti del libero corso dei fiumi per creare bacini artificiali col doppio intento di accumulare acqua nei periodi di piena ad uso sia della centrale elettrica che dell’irrigazione dei campi coltivati. L’idea sembrava geniale: si produceva al tempo stesso elettricità per le città e si tesaurizzava acqua da distribuire alle campagne nei periodi di secca. Talmente geniale che il mondo è venuto riempiendosi di dighe sempre più colossali ed invasive di ampie aree, spesso abitate, costringendo interi villaggi a trasferirsi altrove a vantaggio degli agglomerati urbani maggiori.

Con l’andare del tempo, tuttavia, son venuti emergendo tutti i rovesci di questa medaglia, in quanto i fiumi cambiarono fisionomia, venendo meno alle loro funzioni tradizionali. Prima fra tutte la ciclicità dei flussi, di cui offre l’esempio forse più famoso il mitico Nilo, con le sue ritmiche piene e l’apporto di tutti i preziosi nutrienti di cui è ricco il suo limo, che rimane nei campi allagati quando cessa l’esondazione e le acque si ritirano. Oggi quel limo rimane invece catturato nell’invaso della diga e si accumula gradualmente sul suo fondo, riducendone negli anni la capienza. Tutti quei campi bordeggianti il corso del Nilo che venivano fertilizzati senza intervento umano dal suo limo devono ora ricorrere a fertilizzanti artificiali, ad alto costo energetico, per continuare a produrre. Non solo, ma il prelievo di acque nel corso superiore, sia per le ripetute dighe (ce ne sono oggi 6) che per gli usi irrigui, riducono il corso inferiore a portate sempre più esigue, talchè ben poco delle sue acque raggiunge il Mediterraneo. La portata ridotta del fiume, un tempo maestoso, stenta così ad alimentare le falde sotterranee, sempre più emunte dai campi coltivati alla ricerca di acqua a profondità crescenti. Infine, l’irrigazione quasi esclusiva con acqua di falda, senza il periodico risciaquo da parte delle acque correnti del fiume e/o delle acque piovane, porta ad una progressiva salinità del terreno, col risultato finale della sua sterilità e desertificazione. Non c’è forse bisogno di aggiungere che questi sconvolgimenti si ripercuotono anche sulla fauna ittica, avicola e palustre, con tutte le ovvie conseguenze sui volumi di pescato e sugli equilibri ecologici tipici di ogni zona umida.

Il meccanismo ora descritto non si limita al Nilo, purtroppo, ma interessa gran parte dei fiumi mondiali, forzati in bacini idroelettrici e condotte forzate; e cito come secondo esempio il Fiume Giallo, in Cina, così detto proprio per il suo alto concentrato di limo, che sta sempre più intasando le ciclopiche dighe costruite lungo il suo corso. L’energia “bianca”, ossia idroelettrica, nata come la forma di energia più pulita ed in armonia con l’ambiente, è così diventata nemica di quell’energia “verde”, agricola, che pure sembrava poter aiutare, nonché delle forme di vita selvatica da cui gran parte della popolazione un tempo dipendeva per il proprio sostentamento.

Si sta dunque attuando un’accelerazione preoccupante dell’aggressione dell’uomo al corso naturale dei fiumi, non solo con la costruzione di dighe, ma anche con la deviazione delle acque in canali cementificati, col risultato di fiumi che, anziché ingrossarsi nel loro fluire verso gli estuari, per l’apporto di nuovi immissari, si restringono progressivamente. La tendenza è quindi verso la scomparsa degli estuari stessi, con tutta la ricchezza di forme viventi che ne fanno le culle della biodiversità per eccellenza, al pari di tutte le zone paludose che i fiumi formano nei tratti caratterizzati da minore pendenza; zone oggi in gran parte “bonificate” per far luogo a campi coltivati, fertili inzialmente per l’estrema ricchezza di nutrienti ivi presenti, ma destinati a trasformarsi in polvere e sabbia salata, sollevata in turbini dal vento. Siamo abituati a vedere sulle carte geografiche un maggiore spessore delle linee fluviali man mano che dalla sorgente si approssimano alla foce. Se venissero aggiornate, per molti fiumi dovrebbe seguirsi il processo inverso, diventando “fiumi al contrario”! Quando poi i fiumi, anziché sfociare in mare aperto, finiscono in bacini chiusi, come il lago d’Aral o di Ciad, si assiste al loro progressivo prosciugamento con la scomparsa degli immissari.

L’umanità ha convissuto sino a pochi decenni fa con fiumi tortuosi e con ampi spazi ai suoi margini: le pianure alluvionali, atte ad accogliere le acque di piena durante le ricorrenti, fisiologiche alluvioni. Queste ultime erano pertanto viste come apportatrici di ricchezza al terreno, al ritirarsi delle acque. Oggi invece, con le forsennate costruzioni sulle sponde dei fiumi, il prosciugamento (“bonifica”) delle zone paludose e la “rettificazione” dei corsi fluviali, privandoli, secondo criteri autostradali, delle ripetute anse che ne rallentavano il deflusso, è venuto diminuendo il volume totale dei letti, con la conseguenza che le piene acquistano maggior velocità in percorsi più ristretti e diritti, esondando con crescente furia e travolgendo tutto quanto improvvidamente costruito nelle aree di pertinenza naturale dei fiumi. Una pertinenza un tempo promiscua con l’agricoltura, ma incompatibile con costruzioni ed attività umane diverse che ne hanno preso il posto. Da notare, dulcis in fundo, che la gestione delle dighe, tra le cui funzioni si è sempre vantata quella di regolazione del regime delle acque, oscilla tra l’esigenza di restare il più possibile piene, per massimizzare la produzione di energia elettrica (ed anche per la funzione di serbatoio durante le ore di “morbida” delle centrali termoelettriche, che pompano acqua a monte per utilizzarla nelle ore di punta della domanda elettrica), e quella di restare il più possibile vuote, onde accogliere eventuali ondate di piena e mitigarne le conseguenze a valle, rilasciando le acque con gradualità: una funzione, quest’ultima, svolta in passato dalla tortuosità del letto e dagli acquitrini nelle zone pianeggianti, aventi funzioni scolmatrici. Inutile dire che la perdurante fame di energia porta a prediligere la prima opzione, con conseguenze che, in numerose parti del mondo, sono costate la vita agli abitanti a valle, travolti da inondazioni che i bacini troppo pieni delle dighe non hanno potuto fermare.   

Volto brevemente pagina per soffermarmi su altri usi conflittuali dell’acqua, oltre a quelli già accennati tra industria e agricoltura, con qualche riflessione sulle centrali termoelettriche, che necessitano anch’esse di grossi volumi di acqua per il raffreddamento delle caldaie e che, costruite tradizionalmente verso il corso finale di grossi fiumi, dove ci si aspetterebbe un maggior afflusso di acqua, hanno rischiato la sospensione del servizio per magre prolungate, accentuate dai prelievi nei tratti a monte, fatti dalle industrie e per irrigare campi inariditi, causa il progressivo sprofondamento delle falde. Il Po ne è stato un nostrano esempio nelle siccitose estati del 2002 e 2004. Le cose vanno meglio, sotto il profilo idrico, se le centrali termoelettriche vengono raffreddate con acqua di mare, come avviene ad es. nella centrale di Vado. Una centrale sotto tiro per la sua marcia, sia pur parziale, a carbone, per la sua potenzialità e per la sua posizione. Questi sono temi che mi impegnarono parecchi anni fa (e in senso in parte contrario a quello ambientalista prevalente); ora però mi porterebbero lontano da quello di queste pagine, incentrate sull’acqua e non sull’aria, per cui preferisco rimandarli ad altra occasione.

Come altre volte, concludo con un rapido cenno alle condizioni locali. Essendo la Liguria una regione in gran parte costiera, il pericolo maggiore per le nostre acque, prelevate da falde prossime al mare, è l’invasione di acque saline nelle falde stesse, al loro abbassarsi nei periodi di siccità e quindi di maggior prelievo. I nostri antenati usavano tesaurizzare le acque piovane nei tipici serbatoi cilindrici che ancora si vedono sparsi sulle nostre colline: una pratica in progressivo disuso, con l’estendersi delle tubature degli acquedotti, col risultato di utilizzare per usi irrigui o di lavaggio acque potabili pescate dalle falde: un uso improprio, al pari di quello dell’energia elettrica per riscaldamento. Un esempio, peraltro non intenzionale, fu il taglio della vena che riforniva l’altopiano delle Manie durante il traforo della galleria ferroviaria tra Finalpia e Spotorno, col risultato che si deve ora pompare acqua a monte, mentre la vena si scarica nello Sciusa in prossimità della foce. Una funzione gratuita naturale, quindi, è ora sostituita da una a consumo costante di energia elettrica per il pompaggio in quota.

Oltre alla posa di serbatoi in elevazione per la raccolta dell’acqua piovana, utili anche per arginare quei crimini senza scopi che sono gli incendi boschivi, ribadisco con forza quanto ormai decenni fa suggeriva il prof. Martini, della Facoltà di Botanica dell’Università di Genova, che raccomandava di cessare la piantumazione di essenze resinose sulle nostre colline, restituendole alle essenze endemiche, quali il leccio, la quercia, il frassino e il carpino, che hanno una maggior resistenza agli incendi e rigettano al piede. Insistendo invece con i pini, dovremo rassegnarci a ricorrenti incendi e conseguente desertificazione del nostro entroterra, concausa primaria delle alluvioni, agevolate inoltre dalla meticolosa estirpazione della flora fluviale spontanea, che ostacolerebbe e rallenterebbe la corsa delle acque verso il mare. Dobbiamo insomma smetterla di considerare i fiumi come autostrade delle acque, alle quali ci piacerebbe poter apporre un cartello coi limiti di velocità, mentre ci industriamo assurdamente per renderle più veloci e accelerarne l’azione escavatrice.    

Marco G. Pellifroni              Finalpia, 14 dicembre 2006 

[Mi riprometto di ritornare sull’argomento ACQUA, per evidenziare quanta ne consumi, in forma perlopiù indiretta, ogni nostra attività quotidiana: è la cosiddetta ACQUA VIRTUALE, che invisibilmente importiamo da Paesi spesso inariditi proprio per fornirci merci insospettabilmente “idrovore”, come il cotone, il riso, il caffè… Altro che “commercio equo e solidale!”]