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UOMINI E BESTIE

8: Prospezioni dell’immaginario

 Equorum mirabilia

UOMINI E BESTIE Terza parte

Commentiamo ora il lungo estratto pliniano sui cavalli (VIII 154-175) di cui abbiamo fornito la volta scorsa la traduzione. Dunque, si comincia con Bucefalo, il destriero di Alessandro Magno, cosiddetto per l’espressione torva o perché aveva una macchia a forma di testa di toro sulla spalla. Non si faceva montare che da lui e, pur ferito durante l’assedio di Tebe, riuscì lo stesso a trasportarlo in salvo, onde il re grato dopo la sua morte lo celebrò fondando una città dal suo nome (154). Gellio (V 2, 1-5) riporta più o meno le stesse notizie, ma precisa che morì in India.

 

Il cavallo di Alessandro si chiamava Bucefalo, cioè “Testa di toro”, di nome e di fatto. Carete [fr. 125F18 FGrH JACOBI] scrive che fu acquistato per tredici talenti, che corrispondono a trecentododicimila dei nostri sesterzi, e regalato a Filippo. Di questo corsiero vale la pena ricordare che, quand’era bardato coll’equipaggiamento da guerra, non si lasciò mai montare da nessun altro se non dal re. Si racconta pure che durante una battaglia della spedizione indiana Alessandro, montato su di esso, compì prodigi di valore ma ad un certo punto essendosi gettato, incurante della propria salvezza, nel cuore della falange nemica, fu bersagliato da ogni parte di proiettili che inflissero al cavallo profonde ferite sul collo e sui fianchi; benché moribondo e quasi dissanguato l’animale riuscì però a salvare il re conducendolo di gran carriera fuori dell’accerchiamento nemico e, quando fu oltre la portata dei dardi, súbito stramazzò al suolo e cessò di vivere, mostrando però un sollievo quasi umano perché sapeva che ormai il padrone era al sicuro. Il re Alessandro dopo aver vinto quella battaglia fondò sul posto una città ed in onore del suo cavallo la chiamò Bucefala.

 

Anche il cavallo di Cesare non accettava nessun altro in groppa, pare avesse le mani al posto degli zoccoli sulle zampe anteriori e così è figurato nella statua dinanzi al tempio di Venere Genitrice nel Foro cesariano. Augusto eresse un tumulo al suo, cui Germanico dedicò un carme. Giuba riferisce che Semiramide intratteneva un rapporto bestiale con uno stallone (155). Il tema torna in Eliano, che riporta (hist. an. IV 8) la favola di uno staffiere ucciso da un puledro perché costringeva la madre ad una relazione innaturale (IV 8), e di un cavallo innamorato dell’efebo ateniese Socle (VI 44).

 

Riporta Eudemo [non si sa chi fosse] che uno staffiere s’innamorò della puledra migliore dell’allevamento, come se fosse la più bella ragazza del paese. Per qualche tempo si controllò, ma alla fine ebbe il coraggio d’accostarsi a quell’innaturale coniugio e si unì con lei. La cavalla però aveva un figlio, anch’esso di bell’aspetto, che quando s’accorse di quello che accadeva, angustiato proprio come se la madre fosse una schiava tiranneggiata dal padrone, balzò addosso all’uomo e lo uccise, poi spiò il luogo dove fu sepolto e, dopo averlo raggiunto, lo disseppellì e oltraggiò il cadavere infliggendogli ogni genere d’offese.

Se il cavallo è accudito con ogni cura, ricambia chi lo ha trattato bene con l’affetto e la confidenza: quale fosse il comportamento di Bucefalo verso Alessandro è una storia nota a tutti, che mi annoierebbe di ripetere. Tralascio di parlare anche del cavallo di Antioco, che vendicò il padrone ed uccise il Gallo, di nome Centoarate, che aveva ammazzato Antioco in battaglia [v. oltre]. Socle, di cui non molti mi risulta abbiano notizia, era un Ateniese che godeva fama d’esser attraente, ed effettivamente lo era. Costui comprò un destriero, bello anch’esso ma di carattere fortemente passionale ed in un certo senso anche molto più intelligente degli altri cavalli. L’animale fu preso da un violento amore per il padrone, e quando egli s’accostava sbuffava eccitato, quando gli batteva la palma sul collo nitriva, quando lo montava si mostrava docile, quando gli stava di fronte lo guardava languidamente. Tutto ciò pur se manifestava la passione era ancora comunque ritenuto divertente, ma poi l’animale apparve sempre più propenso a passare alle vie di fatto col giovane, e già correvano voci assai sconvenienti su di loro per cui Socle, non sopportando lo scandalo e pieno di risentimento per il cavallo quasi fosse un amante licenzioso, lo vendette, ma la bestia non resse la lontananza dell’amato e mise termine alla propria vita con un assoluto digiuno.

 

Rifuggono dall’incesto: quando un maschio, cui avevano bendato gli occhi, s’accorse d’aver coperto la madre, si precipitò da una rupe (156). La “notizia” viene da Aristotele (hist. an. 631a1 sqq.), che l’accosta ad un re scitico, cosí anche Eliano (VI 44), e s’iscrive in quella zoologia moralizzata antiempirica che toccherà il culmine nel Fisiologo. Sono sensibili alla musica, sanno piangere e s’affezionano al padrone, come il corsiero di Nicomede (Nicomede II Epifane, re di Bitinia dal 149 al 91 a. C.) che si lasciò morire d’inedia dopo la sua morte (157), o come quello di Antioco (dovrebbe essere Antioco I Sotere, r. 280-61) che, cavalcato dall’uccisore Centareto, lo vendicò gettandosi in un baratro. Il cavallo di Dionigi il Vecchio, da lui abbandonato prigioniero del fango in un pantano, liberatosi, ne seguì la traccia e lo raggiunse con uno sciame d’api nella criniera, ciò che, abilmente interpretato dal tiranno come un presagio divino, gli valse il potere in Siracusa (158). Ingenia eorum inenarrabilia (159), e tiene dietro (159-61) un’esemplificazione in guerra e negli spettacoli circensi; è una mania degli Antichi, questa, di accreditare certi animali di un’intelligenza etica che, è sottinteso, molti uomini non hanno: in realtà,

 

while the horse is intelligent among subhuman animals, it is safe to say that the horse is more concerned with the functioning of its acute sensory reception and its musculature than with mental processes (EB 1981, Macropedia, s. v. “Horse”).

 

Seguono ragguagli più veritieri: vivono fino a cinquant’anni, uno sino a settantacinque dirà oltre (165) col suo tipico disordine espositivo, meno la femmina; diventano adulti, la giumenta a cinque, lo stallone a sei (162). La gestazione dura undici mesi, l’accoppiamento, da praticarsi a metà marzo, dà prole più robusta se si attendono i tre anni di entrambi. Il maschio è fecondo sino a trentatre anni, e dopo i venti allontanato dalle gare circensi viene destinato a razzare (come ora), ma si dice che in un allevamento di Opunte (dal Bestiario di Aberdeen frainteso per il nome della bestia) nella Locride un riproduttore montasse ancora a quarant’anni coll’aiuto di un’incastellatura (163). Però sono poco fertili, onde si concede loro una pausa tra una monta e l’altra (oggi è diverso) e comunque riescono a coprire non più di quindici volte in un anno. Se si recide la criniera delle giumente, smettono l’estro: si cfr. AEL. hist. an. II 10, che le trasforma in signorine della buona società sdegnose di mesalliances.

 

Il cavallo è di solito un animale orgoglioso, perché le sue dimensioni, la velocità, la lunghezza del collo, la snellezza delle zampe e il rimbombo degli zoccoli lo rendono insolente e superbo. Ma soprattutto una giumenta dalla lunga chioma è altezzosa e intrattabile, non tollera che un asino la monti e vuole solo congiungersi con uno stallone perché ritiene d’esser degna del meglio. Ciò non sfugge a quanti intendono far nascere dei muli, perciò le tagliano la criniera a casaccio e come càpita, poi le portano l’asino ed essa, che prima se ne vergognava, sopporta allora l’ignobile unione. Anche Sofocle [Tiro, fr. 659 TGF RADT, cfr. hist. an. XI 18] pare abbia alluso a quest’umiliazione

 

Generano ogni anno sino ai quaranta (164), partoriscono in piedi (non sempre in realtà) e si mostrano madri esemplari (165).

 

Non poteva ora mancare una delle favole equine più radicate degli Antichi, quella dell’ippomane (hippomanés in gr., hippomănes in lat.): ritenuto un potente afrodisiaco, è un’escrescenza scura sulla fronte del puledro, grande quanto un fico, che la madre subito dopo il parto stacca con un morso e inghiotte d’istinto, altrimenti non sorgerebbe in lei amore per il figlio e si rifiuterebbe di allattarlo (165). Eliano (XIV 18) ci ricama sopra e aggiunge tra l’altro che gli allevatori, quando intendono usarlo a fini erotici, prevengono la cavalla e lo conservano in uno zoccolo, sacrificando al Sole il puledro, comunque condannato all’inedia.

 

Quando una giumenta partorisce il puledro pare che esso presenti un’escrescenza carnosa di modeste dimensioni, secondo alcuni sulla fronte, secondo altri sull’anca, secondo altri sui genitali. Tale escrescenza, chiamata ippomane, viene strappata via con un morso dalla madre, che la fa sparire ingoiandola. Ciò accade perché la Natura ha compassione e pietà dei cavalli, infatti, a quel che si dice, se l’ippomane rimanesse attaccato al corpo i maschi e le femmine sarebbero arsi da un incontenibile impulso al coito. Diciamo, se si è d’accordo, che si tratta di un dono di Posidone o di Atena, i due dei cui è sacro l’animale, affinché la razza equina rimanga e non sia distrutta dalla frenesia amorosa. Gli allevatori ne sono perfettamente consapevoli, e se hanno bisogno dell’escrescenza che dicevo per insidiare qualcuno suscitandone l’ardore erotico, sorvegliano la giumenta gravida e quando partorisce, immediatamente le sottraggono il puledrino e recidono l’ippomane, che ripongono in uno zoccolo di cavalla, dato che in esso soltanto può esser conservato e tenuto in serbo senza perdere l’efficacia; il puledro invece viene sacrificato al sole nascente, giacché la madre rifiuterebbe d’allattarlo ora che ha perso quello che per lei è un segno di riconoscimento, capace di suscitarle l’amore filiale, giacché solo quando inghiotte l’ippomane essa concepisce per il figlio un ardente affetto. Se poi l’ippomane viene somministrato coll’inganno ad un essere umano, costui diventa preda d’un’irrefrenabile concupiscenza che lo arde come su di una graticola, parla ad alta voce e senz’alcun controllo tenta di avere rapporti anche coi ragazzi più orridi e le donne mature e sfigurate, non riesce a tener nascosta la sua follia e racconta a tutti quelli che gli càpitano a tiro quanto sia tormentato dal desiderio, il fisico si consuma e deperisce, la mente vacilla nel delirio erotico. Mi è stata pure riferita la storia della cavalla bronzea di Olimpia, alla cui vista gli stalloni son presi da un desiderio folle, nitriscono amorosamente e vorrebbero montarla, perché si cela l’ insidia dell’ippomane nel bronzo magato, che tramite una segreta malizia dell’artefice riesce così a soggiogare i cavalli di carne e sangue; non è infatti possibile che la scultura sia tanto fededegna da ingannare gli stalloni che la vedono, mettendoli in furore. Può darsi che quelli che raccontano questa vicenda dicano il vero, e può darsi di no, io mi sono limitato a riferire quello che ho ascoltato.

 

A proposito del sortilegio di Olimpia, ecco un summing up di quanto della favoletta scrive Pausania (V 27, 1 sqq.): tra il Pelopion e la posterla della parete occidentale della recinzione dell’Altis (si v. la pianta qui sotto) sorgevano in fila ordinata verso mezzogiorno molti altri ex voto, tra cui quelli offerti da Formide di Menalo in Arcadia (forse il poeta comico ricordato da Aristotele: poet. 1449b4), ossia due destrieri e due aurighi bronzei, uno fuso da Dionigi Argivo e l’altro da Simone di Egina: il primo cavallo è quello “magato” di cui parla Eliano, che però si preoccupa almeno di trasformarlo in una giumenta.

 

 

 

Columella (VI 27, 3) lo considera un filtro d’amore, così chiamato per analogia.

 

Ai brocchi si permette di pascolare promiscui, maschi e femmine, e non si osservano tempi stabiliti per la monta. Invece i purosangue vengono messi insieme intorno all’equinozio di primavera, in modo che le giumente possano sgravarsi senza soverchia pena nello stesso periodo del concepimento (la gravidanza dura infatti dodici mesi), quando i campi sono di nuovo erbosi e fiorenti. Bisogna perciò soprattutto aver cura che in codesta stagione dell’anno alle femmine e agli stalloni desiderosi di copulare sia facilitato l’accoppiamento poiché questi animali, se gli s’impedisce il coito, cadono in preda ad una furia erotica, tanto è vero che ad un filtro che suscita negli esseri umani una libidine pari a quella dei cavalli è stato dato il nome di hippomanés, ossia “follia equina”.

 

Due volte ne parla Virgilio, nell’Eneide (IV 513-4):

 

quaeritur et nascentis equi de fronte reuulsus

et matri praereptus amor (cit. in AP. apol. 30),

 

e nelle Georgiche (III 280-83):

 

hic demum, hippomanes uero quod nomine dicunt

pastores, lentum destillat ab inguine uirus,

hippomanes, quod saepe malae legere nouercae

miscueruntque herbas et non innoxia uerba,

 

evidentemente con due interpretazioni differenti. Servio (in VERG. geor. III 280) ci spiega ogni cosa. Ci sono tre possibilità.

1.     Secondo Esiodo (in un’opera ignota) e Teocrito (II 48) un’erba che, brucata, infonde furore ai cavalli.

2.     L’umore che cola dalla matrice delle giumente in calore, raccolto per farne pozioni amatorie (Georgiche, condivisa in TIB. II 4, 58).

3.     Infine una tumefazione sulla fronte del puledro secondo Teofrasto (Eneide e sopra Plinio ed Eliano).

 

Da altra fonte (PHOT. bibl. 278.528b = fr. 175 WIMMER) sappiamo che il medesimo Teofrasto nel Perì tôn legoménōn zōōn fthoneîn scriveva:

 

pure la giumenta strappa con un morso e divora l’ippomane dei puledri, in quanto anch’esso risulta utile in certi casi.

 

Sarebbe dunque mossa da invidia humani generis, come altri animali: ecco un altro mito etologico antico, forse scaturito dall’opposizione simbolica fra natura e cultura. Aristotele (hist. an. 572a22-30) conosce la seconda e la terza interpretazione, cui accenna nel contesto di una magistrale rassegna dei sintomi dell’estro:

 

Nel tempo della monta accostano l’una all’altra il muso più spesso, agitano fittamente la coda ed emettono un nitrito diverso da quello dei normali periodi. Dalla vulva cola un liquido simile allo sperma del maschio, ma molto più fluido, da alcuni chiamato ippomane, da non confondersi coll’escrescenza che spunta sui puledri. Si dice che sia laborioso raccoglierlo, perché scorre a goccia a goccia. Infine, quando sono in calore orinano spesso e giocano fra di loro.

 

Donde siano nate tutte queste bizzarrie sull’ippomane, ovviamente senz’alcun fondamento, proprio non si saprebbe dire.

 

Le cavalle del branco si prendono cura degli orfani (vero in parte), i nuovi nati per tre giorni non possono toccare il suolo colla bocca (chissà perché), quanto più focosi tanto più affondano le froge nell’acqua quando bevono, gli Sciti usano giumente come destrieri perché urinano in corsa senza doversi fermare come i maschi (può essere vero; 165).

Il paragrafo 166, fatta menzione di due razze ispaniche, i già citt. (nella prima scheda) tieldones e gli asturcones, è dedicato ad una favola poetica celebre quanto l’ippomane; riprendendo la trad. pubblicata la settimana scorsa:

 

Pare che in Portogallo, nella regione fra la cittadina di Lisbona ed il fiume Tago le giumente correndo contro il vento di favonio concepiscano un soffio vitale donde poi partoriscono un puledro, che nasce dotato di un’incredibile velocità ma non supera i tre anni di vita

 

Favonio, noterò giacché siamo in argomento, da faveo, è lo zefiro, il vento fecondatore di ponente che spira all’equinozio primaverile. Lasciamo la parola ad Eliano (hist. an. IV 6):

 

Le persone esperte nell’allevamento di puledri e cavalli concordano che essi amano particolarmente i luoghi palustri, i prati e le zone ventose, onde Omero, a mio parere ferratissimo anche in questo campo, scrisse dove che sia:

 

Per lui tremila cavalle pascevano lungo la marcita.

 

Gli allevatori testimoniano che spesso le puledre, ingravidate dal vento, fuggono dalle loro sedi verso il settentrione o il meridione, come sa ancora Omero, che scrive:

 

Di esse s’innamorò Borea mentre pascevano.

 

ed anche Aristotele, a parer mio attingendo ad Omero, registrò che fuggono dritte verso il vento del nord o del sud quando sono in preda all’estro.

 

Dunque, gli allevatori testimoniano che spesso le puledre, ingravidate dal vento, fuggono dalle loro sedi verso il settentrione o il meridione, come sanno Omero, che nell’Iliade (XX 222-29) scrive:

 

                            Di loro, [le tremila cavalle di Erittonio]
mentre pascolavano, s’innamorò Borea [la tramontana]
e le montò, prendendo l’aspetto di un cavallo dalla chioma scura:
rimasero gravide e partorirono dodici puledrine,
che, quando balzavano sulla fertile piana,
sfioravano la punta delle spighe senza spezzarle,
e quando balzavano sul vasto dorso del mare,
correvano sul pelo dei frangenti del mare (nella brutta trad. di Paduano),

 

ed Aristotele, che ad Omero attinge, nella Storia degli animali (572a13-30):

 

Si dice che le cavalle in calore vengano ingravidate dal vento; per evitarlo, in Creta non le separano dagli stalloni. Quando gli capita, fuggono la vicinanza dei loro simili. I sintomi son quelli descritti per l’estro delle troie. Vanno a nord e a sud, mai ad est o ad ovest, e quando ne sono pregne non lasciano avvicinare nessuno, ma corrono sinché non cadono sfinite o non giungono al mare, ove si sgravano di ciò che chiamano anch’esso ippomane, come quello che cresce sul puledro: rassomiglia all’umore della troia ed è ricercato soprattutto da quanti si occupano di magia

 

En passant, secondo Plinio in altro luogo (X 180) corrono a nord se hanno concepito un maschio, a sud se una femmina, e se restano gravide cambiano colore, infine abortiscono se cavalcate da una donna mestruata (XXVIII 79; una delle tante credenze misogine antiche legata all’impurità del ciclo femminile, presente in molte culture). Non è solo greca questa bella rêverie. Gli Indú considerano figlio del Signore del Vento, (Marut), il Sempiterno  (Hanumat) dalla testa di scimmia. Lung Ta è il Cavallo del Vento raffigurato sui vessilli di preghiera del buddismo tibetano, cui i fedeli chiedono pace e buona fortuna. I beduini narrano che Dio un giorno disse al Vento del Sud di gonfiarsi e condensarsi, perché avrebbe avuto un figlio, poi ne prese un pugno, vi soffiò sopra e creò il cavallo. E chissà che non se ne sia ricordato anche Garcia Lorca:

 

Preciosa, corre, Preciosa,

que te coge el viento verde!

Preciosa, corre, Preciosa!

Miralo por donde viene!

Satiro de estrellas bajas

con sus lenguas relucientes.

 

Seguono le notizie sugli asini e i muli. Per favorire l’accoppiamento e vincere la naturale ritrosia, le puledre e gli asini giovani destinati in futuro a razzare vengono coll’inganno del buio allattati, rispettivamente, da un’asina e da una cavalla (171). Infine una norma genetica esatta: da due generi diversi un terzo ne nasce, sempre sterile (173).

 

MISERRIMUS