FOGLI MOBILI

La rubrica di Gloria Bardi  

Napolitano, i partiti e le donne.

(Infine, perché no?)   

In settimana Napolitano, in occasione del sessantesimo anniversario del voto alle donne, ha parlato di rappresentanza femminile, partiti, democrazia, formulando non i soliti auspici o le solite esortazioni di rito ma un paio di bordate analitiche colme di potenziale argomentativo dirompente e travolgente.

Almeno così io le ho lette.

Vediamole:  

“Per avere più donne in Parlamento, ai vertici del governo e dello Stato, non sono tanto necessarie nuove norme di legge, quanto piuttosto norme che garantiscano democrazia e trasparenza nella vita dei partiti”.

 E, mi preme sottolineare, l’insufficiente presenza femminile (17% contro il 30% ritenuto virtuoso dall’Europa) non è un problema delle donne ma del paese, affetto da sproporzione tra rappresentanti e rappresentati, cosa che configura di per sé un’emergenza democratica, o meglio –come ben ci spiega il Presidente- la risultante finale di un deficit pesante di democrazia.

Non a caso l’Italia è stata messa sul banco dell’asino anche per il suo livello di democrazia.

C’è da presumere che la causa sia la medesima.

Il Presidente l’ha identificata  nella scarsa democrazia e trasparenza nella vita dei partiti.

In passato si era data la colpa alla società, alla cultura, alla tradizione, al sistema, alla politica genericamente intesa, agli uomini, alle stesse donne ma stavolta sul banco degli imputati sta non un soggetto generico ma soggetti precisi e ben identificati, con ben identificate dirigenze, cioè i partiti, che, così come sono, rappresenterebbero quindi, in contraddizione con la loro origine, dispositivi antidemocratici.

Si tratta di un’ accusa pesantissima sulla bocca di un uomo politico vecchio stampo erede della tradizione resistenziale, quale il Presidente è.

Roba che nemmeno Moretti sulla via di Caimasco!

La scarsa presenza femminile diventa un dato di particolare evidenza, rivelatore del fatto che, mi va di ripeterlo, i partiti sono diventati dispositivi antidemocratici, dove a decidere chi premiare e portare avanti sono i vertici e non è la base, in gran parte pressoché inesistente. E, ma questo lo sappiamo per conto nostro e non occorre farcelo esplicitare da Napolitano, ad essere premiati sono i collettori di finanziamenti o i fedelissimi dei capi, che in questo modo trasformano la propria posizione in una sorta di regime. Abbiamo visto e vediamo uomini politici affatto amati dalla base e dal paese, restare saldi e immobili al comando, a gestire le loro oligarchie.

 Ma giriamoci indietro.

Nati nel dopoguerra, dallo slancio dell’antifascismo, i partiti avevano lo scopo di organizzare la partecipazione politica, ovvero declinare il binomio partecipazione-rappresentanza, fungere da organismo di mediazione tra la democrazia diretta e quella rappresentativa, rendere possibile la democrazia.

Erano organismi giovani, vitali, ricolmi di promesse, in grado di mobilitare l’impegno e non di ostacolarlo, diversi da quelli che le parole di Napoletano  denunciano.

 Oggi appaiono del tutto snaturati, e se qualcosa organizzano non è più la partecipazione ma il potere. Sono complesse macchine di gerarchizzazione e il binomio partecipazione-rappresentanza ha ceduto il passo a altri nomi: potere-consenso.

Il consenso non è la partecipazione ma solo il sì o il no: altro non occorre al costituirsi del potere.   

Il consenso è manipolabile, la partecipazione è il contrario della manipolazione; il consenso chiede persuasione, la partecipazione chiede conoscenza, senza la quale non può esistere democrazia.

Il consenso è funzionale al raggiungimento e mantenimento del potere, che, avendo bisogno di vittoria elettorale, se lo confeziona demagogicamente, il consenso, tramite sondaggio, strategia che rileva e dà fiato al sentire immediato.

 Demagogia e propaganda prendono il posto della pedagogia, anch’essa nelle corde dei partiti originari, intesa come formazione al pensare e all’agire politicamente. Intesa come cultura del partecipare. 

 Un dirigente di partito vi dirà: se vogliamo vincere …e non se vogliamo essere degni di vincere. E in genere ha in mente soltanto alleanze e testimonial. Il fatto di meritare la vittoria non sta nei linguaggi e spesso per vincere si mercanteggia con i valori di riferimento e si perde identità e propositività.

 Sondaggismo, elettoralismo, professionismo politico, cooptazione degli adepti, trasformismo, elevazione dei mediocri, gerontocrazia, fallocrazia (termine tanto caro alle vecchie femministe): tutto questo è funzionale a mantenere il potere in mano a chi ce l’ha.

 Non solo, ma guerra dichiarata all’unica forma di democrazia diretta che ci è rimasta, ovvero il referendum, mandato a morte dai partiti. L’ultima legge elettorale ha poi esplicitato il peggio e costituito il dispotismo dei vertici sull’elettorato. Che cosa si aspetta a cambiarla?

 I partiti finiscono per rappresentare solo la loro classe dirigente e non le istanze dell’elettorato più politicamente attento, che infatti da tempo è costretto a votare “tappandosi il naso” e a scegliere non la formazione in cui si riconosce di più ma la meno peggio tra ciò che passa il convento.

Ora, credo voglia dirci Napolitano, se i politici li scegliesse la base e non i partiti, si correggerebbe il rapporto di rappresentanza e il numero di donne elette sarebbe molto maggiore e non solo perché molte sono le elettrici ma perché anche l’elettorato maschile sembra cercare un cambiamento in protagoniste femminili, come dimostrano i casi francese e americano. E’ stata la base infatti a premiare Ségolène Royal, nel dispositivo delle primarie e malgrado un criterio di rappresentanza parlamentare perfino inferiore a quello italiano.

 E non solo quello delle donne,  ma sarebbe maggiore il numero delle persone capaci, oggi scomode per le dirigenze, che amano invece circondarsi da grati mediocri: le stesse donne sarebbero, per intenderci, ben diverse dalla Binetti che ha criticato la fiction di Banfi perché il matrimonio omosex non sta nel programma dell’ulivo.

Non basta essere donna per essere illuminata, intendiamoci.

 Certo, Napolitano non pronuncia una bocciatura dei partiti ma il bisogno di norme che ne garantiscano la pertinenza democratica. Ma io, che non sono Presidente della Repubblica, mi chiedo: come ci si può aspettare che questi stessi partiti, oligarchici e conservatori come sono,  possano promuovere, attraverso i loro rappresentanti in Parlamento, norme che minino quel potere a cui dimostrano tanto ostinato attaccamento, al punto di perdere il senso stesso della realtà e del paese?

Perché queste nostre oligarchie dovrebbero essere diverse da quelle di cui tutta la storia ci ha dato spettacolo?

Credo che, a questo proposito, dovremmo rileggerci l’ostracizzato Michels (“La sociologia del partito politico”-1911) secondo il quale la degenerazione antidemocratica è storicamente inevitabile, e trova espressione nella “legge ferrea dell’oligarchia”.

 In ogni caso, io peccherò di diffidenza, ma agli auspici del saggio Presidente credo poco. Pochissimo. Praticamente zero.

Ecco perché non è pensabile rinunciare alle quote rosa, nei partiti prima ancora che nelle candidature. Ed ecco perché le quote rosa sono state bocciate in un profluvio di volgarità da cretini, più ancora che da maschilisti, che Nando Dalla Chiesa ci ha descritto in un articolo sconvolgente.

Sono convinta che in una democrazia sana le quote rosa sarebbero un non senso, esattamente come lo sarebbe l’assunzione di farmaci per un organismo non malato. Ma il corpo con cui abbiamo a che fare è patologico e le pari opportunità hanno bisogno di un buon intervento di medicina politica.

 Ma mentre i partiti ci pensano, ci ripensano,  prendono tempo, sollevano eccezioni, emendamenti, obiezioni di coscienza, arrovellamenti e arrutellamenti, e magari consultano il papa… mentre i partiti decidono cosa fare per noi, di noi, con noi e malgrado noi, perché noi non abbandoniamo l’anticamera, li lasciamo lì dove sono e costituiamo liste fuori dai partiti e di sole donne, e non transgender di potere (non me ne vogliano quelli effettivi, per i quali nutro un rispetto e un’inclusione totale), per le prossime amministrative, secondo  quell’ “agire localmente, pensare globalmente” che, per quanto rimasticato a vuoto, non perde il suo valore? E’ l’idea che mi passato di recente una persona di cui ho stima politica: credo che ci potremmo pensare! 

Immagino come sarebbero l’urbanistica, la sanità, lo sport, il sociale, il bilancio visti con ottica femminile! 

So che anche questo in un paese sensato non ci starebbe ma c’è ancora qualcuno che pensa che il nostro sia un paese sensato?     

Gloria Bardi

   www.gloriabardi.blogspot.com

 

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