Basta con le polemiche che divertono soltanto chi le fa ed offendono, riuccidendole, le vittime. Ritorniamo al ragionare, al capire che cosa davvero fu “quella” guerra, senza infingimenti ed a rischio di sconvolgere anche qualche “teatrino” di comodo. L’acqua marcisce se ferma; quando scorre, si fa pura.
Ancora un mal di….Pansa! 
                                                 di
Sergio Giuliani      versione stampabile

Sentii parlare di Giampaolo Pansa nel 1968, quando, trasferito a Cuneo per insegnare nel locale Istituto tecnico, invitai, tra lo sconcerto del Preside, l’indifferenza dura dei colleghi demoliberali, l’ostilità del fascista resistito e la simpatia,un poco cauta, dei colleghi più giovani, Nuto Revelli e Gildo Milano a confrontarsi con le mie classi.

Fu Gildo (di cui meritoriamente la Magema di Carcare ristampa “Nebbia sulla Pedaggera”) a parlarmi di un giovane studioso finalmente senza retorica e senza partito che lavorava (era storia ancora abbastanza fresca!) a raccogliere dati e testimonianze, il più acriticamente possibile sulla Resistenza. Alludeva a Pansa, allora credo ancora impegnato nella tesi di laurea.

Nei due partigiani era nettissimo il fastidio per certa “vulgata” politico-resistenziale. Più fastidito dai partiti Gildo, che giudicai eroico antifascista  per istinto più che per politica formazione; già allora tradito dai compromessi e molto risentito Nuto. Dalle osservazioni dei ragazzi ebbi l’impressione che il discorso sulla lotta di liberazione fosse già controverso; sentii sussurrare anche di interessi particolari, di crudezze oltre che di scelte nette, rischiose e davvero patriottiche. Attribuii questo sentire ad una voglia un poco vile ma comprensibile di voltare pagina sia sulle durezze vissute, sia sulla incapacità di scegliere, allora, una parte dignitosa e fuor di “zona grigia”.

Troppa gente si era vista sui monti, disse Nuto, negli ultimi giorni, a cose fatte, a guadagnarsi con poco sforzo il diploma Alexander (l’attestato di partigianeria). Troppi partigiani, come lui, celebravano il venticinque aprile lontani dalle piazze clamorose e digià retoriche ritrovandosi in pochi a cantare non” Bella ciao!”, spuntata dopo, come un colchico che chiude la fioritura d’estate, ma le dure canzoni che forse ormai pochissimi ricordano.

Pansa, da storico laureato si fa giornalista e…romanziere (Ahi Ahi!). Sforna brio dalle rubriche e velocità scrittoria dai libri: una vera mèsse. Rivolta i panni, necessariamente infangati ed incrostati, perché fu guerra, della Resistenza, fino a sfondarli. Questo perché c’era stato un logorante processo di appropriazione della lotta di liberazione (in cui, non lo si scordi, c’erano sì stati tutti i sei partiti del Cln, ma in misura quantitativa molto, molto diversa) e i grandi libri come quello di Chiodi, di Panfilo, di Revelli, di Livio Bianco e la raccolta delle lettere dei condannati a morte erano, purtroppo, digìà archiviati e di difficile ristampa. Fa eccezione Nuto Revelli che, fino alla morte, ha continuato a metter ordine nei ricordi e negli eventi, lavoro che gli è costato anche rimbrotti non proprio affettuosi allorché si è occupato della scomparsa, inspiegabile, di un ufficiale tedesco alla periferia di Cuneo e dell’azione eroica di un prete che salvò moltissimi ebrei: lui che aveva scritto:”Pietà l’è morta!”

Ho letto qualche libro di Pansa da pessimo lettore: non mi attrae il “romanzato”. Diverso il discorso per “I figli dell’Aquila”, che ho letto e riletto e rileggo, anche perché tratta vicende che, sia pur da bambino, ho vissuto, ovvero la rabbia dei “Sanmarco”, formatisi per combattere da incursori di marina ed adoperati dagli “alleati” tedeschi nella guerriglia antipartigiana e ricorda eventi tragici di cui la vulgata popolare, il “porta a porta” aveva già anticipato versioni per troppo tempo, per perbenismo, per opportunismo menzognero non si era voluto dire. E poi, nulla sapevo della disperata andata verso nord dei sanmarchi e il loro dissolversi in tragedia giunti al Po, nelle zone natie di Pansa.

“Il sangue dei vinti” non l’avrei acquistato. L’ho letto a prestito e l’ho rifiutato. Senza insulti e grida al“tradimento”! Questo “tradire” vien sempre comodo quando si infrange una comoda pseudoverità: vi ricordate che i fascisti pervicaci come Trizzino si sono inventati il tradimento per spiegare una sconfitta come quella del ’45 che era ormai nelle cose e chiara da tre anni anche ai bambini!

L’ottica di Pansa, attaccato com’è alla sua preda del disvelamento, gli funziona ormai come un calco in gesso di un qualcosa. Dimenticato l’originale [lui lo dà per scontato, l’eroismo dei veri partigiani; ma un giovane che lo legge né conosce i diari che ho prima citato, non lo ritrova certo nelle sue pagine “cattive”] egli lavora come su un oggetto virtuale in cui positivo è divenuto, per legge prospettica, negativo: come nei negativi delle vecchie foto in cui il bianco si legge nero e viceversa. E’ come se fosse retrocesso, per meglio vedere, dalla “stampa” al “negativo” della foto.

Il metodo gli è piaciuto e gli ha preso la mano. L’ultimo libro, “La grande bugia”, che ho appena diligentemente finito di leggere, costringe ad un continuo sforzo per non irritarsi davvero. Come è possibile scrivere un libro di 469 pagine per parlare non di Resistenza, ma di se stesso, del monumento-Pansa attaccato dai feroci cani dei cacciatori di retorica a buon mercato. Ad attacchi sia pur malevolenti, risponde con moltiplicata malevolenza e tutti gli stracci vanno all’aria: i partigiani pochi e, di questi pochi, molti assassini a freddo, a cose concluse; non “liberatori” perché sono entrati nelle città già lasciate dai tedeschi e con armi alleate; l’Anpi un baraccone di sopravvissuti testardi e serbatoio di voti e consensi “rossi” (altre associazioni,come la Fiap, ”purtroppo” minoritarie!) e via così.

Ammettiamo certo che alcune sgradevoli verità siano state troppo occultate, fino a puzzare per sessant’anni; ammettiamo che certi “accademici” troppo facilmente assunti alla cattedra ed alla pubblicistica siano tracotanti per partito preso o per pigrizia mentale; ammettiamo, certo, che occorreva conservare le testimonianze anche di parte avversa insieme ai documenti partigiani; ammettiamo che un “politico” come fu Luigi Longo, ”vice” di Togliatti, non avesse la storica acribia per scrivere un librone come “Un popolo in lotta”.

Ammettiamo… Ma quando si smonta un qualcosa per ripulire e far meglio funzionare, non se ne prendono a martellate i pezzi! Cerchiamo, certo, la verità, ma con spirito vigile, pronto anche all’autocritica, ma non alle furberie; accingiamoci, è ora, a strappare certi cerotti ormai tutt’uno con la nostra pelle; ma il nostro corpo restante canta con gioia la propria sanità (e la sola patria sana – e lo sa anche Pansa! – è quella voluta dai partigiani ed io, che vengo “dopo” sono fiero di essere iscritto a una specie di baraccone ammuffito come l’Anpi appare al Nostro!) e guarisce le ferite.

Non ho elementi per dire se gli eventi raccontati da Pansa siano del tutto veritieri o meno; crediamogli, perché come giornalista è serio. Mi dà fastidio, però, il parlare in tutta tranquillità di “sangue” e di copie vendute (come se il mercato librario attuale fosse fededegno! Non conosceremmo Leonardo, ma i suoi o pretesi suoi sottoscala da “codice”!).

Ci sono memorie letargo-di-talpe ed altre che giovano. Basta con le polemiche che divertono soltanto chi le fa ed offendono, riuccidendole, le vittime. Ritorniamo al ragionare, al capire che cosa davvero fu “quella” guerra, senza infingimenti ed a rischio di sconvolgere anche qualche “teatrino” di comodo. L’acqua marcisce se ferma; quando scorre, si fa pura.

                                                      Sergio Giuliani