BIOPOLITICA

Il diritto alla riservatezza e l’interesse pubblico

                                       di GIULIO MAGNO        versione stampabile

Il recente episodio di censura di un’inchiesta giornalistica, da parte dell’Autorità garante della Privacy, ai danni della trasmissione “Le Iene”, offre lo spunto per una riflessione più ampia sui principi che si assumono violati (o violandi), il diritto collettivo di informazione e il pericolo di autoreferenzialità della classe politica.

Come saprete, l’Autorità garante ha impedito la messa in onda di un servizio approntato dalla trasmissione dell’emittente Italia 1, sostenendo l’avvenuta violazione della privacy, realizzatasi con la raccolta di dati sensibili senza autorizzazione degli interessati.

E’ necessario, innanzitutto, evitare di fare confusione tra due distinti momenti dell’azione potenzialmente lesiva della riservatezza sui dati cosiddetti sensibili, quali le notizie sulla salute, la vita privata in generale eccetera, della persona asseritamente danneggiata: la raccolta del dato e il trattamento dello stesso.

Il momento della raccolta del dato è il più difficile da gestire, per un’autorità come quella del Garante: non potendo disporre di un controllore seduto accanto ad ogni potenziale raccoglitore di dati, ci si limita, inevitabilmente, ad intervenire a posteriori, magari su segnalazione degli interessati.

Il successivo momento, quello del trattamento dei dati, pone l’Autorità in una posizione forse meno problematica, ben potendo, in questa fase, esigere da chi è in possesso del dato che si assume raccolto lecitamente, un trattamento rispettoso dei canoni di anonimità e non rintracciabilità, a  tutela del cittadino intervistato o testato.

Vi sono quindi, a questo punto, dei limiti. La corrente di pensiero che prevale ritiene di dover assolutamente impedire che i dati raccolti in modo illegittimo siano utilizzati, come se si trattasse di prove processuali estorte illegalmente: il vizio si trasmette alla prova, che non può essere utilizzata. E questo è esattamente ciò che è successo nel caso del decreto sulle intercettazioni telefoniche illegali. La cosa fece scalpore, anche se fino ad un certo punto, perché con l’acqua sporca si decise di buttare via anche il bimbo, cioè le prove di eventuali reati, anche gravi, di politici intercettati.

Un possibile approccio alternativo, meno integralista, è rappresentato dalla eventualità di trattenere il dato “in vita”, senza distruggerlo, anche se non sdoganato dal proprietario, a condizione che venga trattato senza che la persona dal quale esso proviene possa essere in alcun modo riconosciuta.

Penso, in altre parole, che la prevenzione delle illiceità commesse nel raccogliere il dato sia necessaria, ma non si debba buttare alle ortiche un dato che potrebbe contenere informazioni rilevanti su aspetti della nostra vita, siano essi di tipo epidemiologico, cioè legati alla salute, oppure di altro genere, per esempio sociologico o socioeconomico.

E qui entra in gioco un altro aspetto, non di poco conto, e anzi, direi, dotato di ben maggiore peso, ed è quello dell’interesse pubblico. Un rapinatore pericoloso o uno stupratore incallito ricercato dalla Polizia non potrebbero certo invocare la privacy per impedire che venissero pubblicate le loro fotografie o identikit sui giornali di mezzo Paese: e ciò perché il codice della Privacy (è sul sito internet dell’Autorithy, ve lo ricordo) permette delle limitazioni alla privatezza, legate alla necessità di tutelare la società dai soggetti devianti, in poche parole per questioni di sicurezza e di giustizia.

E veniamo al centro della questione. Condividendo in linea di massima i principi generali invocati a difesa della decisione di vietare la trasmissione incriminata, pongo però alcune questioni, sulle quali vi invito a ragionare, visto che si tratta di decisioni in ultima analisi politiche su diritti fondamentali che sono alla base delle nostre vite.

La prima è la garanzia di veder applicata la stessa forma di tutela a tutti i cittadini.

La seconda è  la necessità di apertura di un dibattito sui valori posti a fondamento delle decisioni del Garante, dirò di più, di tutti i Garanti, e sulle caratteristiche personali dei componenti le varie Authorities.

La terza è costituito dallo status particolare di cui godono i politici nel nostro Paese.

Per ciò che concerne il primo punto, ritengo di poter affermare, senza timore di smentite, che le violazioni della privacy nei confronti dei singoli cittadini, delle persone normali, non vengono stigmatizzate allo stesso modo  di quelle perpetrate nei confronti delle persone più in vista, e questo per ovvi e fin troppo italici motivi.

Il secondo punto è il più difficile da affrontare, in così poco spazio. Cercando di essere conciso, dirò solo che non è poi così scontata la condivisione di una visione integralista sui valori invocati dai componenti dell’Authority, in tema di privatezza, soprattutto quando sotto i riflettori ci finiscono gli intoccabili.

Quando poi i componenti delle Autorità di questo o di quel tipo sono nominate dal potere politico, il palese conflitto di interessi diventa un po’ pesante da digerire. Sarebbe forse meglio cercare di svincolare le nomine dei componenti di questi organismi di garanzia dai giochetti di palazzo, ricorrendo per esempio a figure paragonabili ai difensori civici, o agli ombudsmen del Nord Europa.

Allora, a parte la presenza capillare sul territorio, si giungerebbe ad una effettiva tutela della riservatezza, o della concorrenza, o di qualsiasi cosa riteniamo, come cittadini, di sottoporre all’osservazione di un organismo del genere.

E veniamo al terzo punto. L’ex Presidente della Camera on.Casini, ha chiesto il test per tutti; l’on. Ronchi, portavoce di An si è dichiarato contro ogni forma di censura; l’on. Capezzone ha anteposto l’interesse pubblico alla non utilizzabilità del dato illegalmente raccolto.

E così via, in ordine sparso.

Ma la questione di fondo è questa: secondo voi elettori, un parlamentare della Repubblica, eletto dai cittadini, sul presupposto di una sua rettitudine, probità, capacità, etc. da un punto di vista politico può e deve invocare i medesimi diritti di un quisque de populo, di uno qualunque dei consociati?

Se non si affronta ora e subito un vero dibattito su questo aspetto della vicenda, si incrina più di quanto non lo sia già il rapporto dei cittadini con la politica.

Personalmente credo che si debba derogare, in casi del tutto particolari, alla piena estensione dei diritti alla riservatezza: una compressione del diritto pieno, accompagnata dal mantenimento di uno zoccolo duro di garanzie a tutela dell’anonimità delle persone coinvolte, in talune occasioni può essere un sacrificio accettabile, come nel caso dei politici, alla stessa stregua delle persone coinvolte in questioni di giustizia.

 E ciò in ragione dei privilegi che l’ordinamento accorda loro (molti), delle caratteristiche che quella funzione impone di possedere e che gli elettori, almeno quelli dotati di un minimo senso delle istituzioni, riconoscono loro votandoli ed eleggendoli. In questo particolare caso, invece,  la mancanza di una giusta garanzia nel rapporto tra “ricercatore” e cittadino (cioè la concessione di una dovuta autorizzazione dei dati sensibili da parte di questi ultimi) viene strumentalmente utilizzata per impedire l’acquisizione di un dato di rilevante interesse pubblico.

Sarebbe invece bastato, per esempio, che gli originali dei filmati delle interviste delle Iene venissero oscurati, per ordine del Garante, nelle parti in cui permettevano di risalire anche indirettamente, alla persona “tamponata”. Poi, chi si fosse ritenuto leso nei suoi diritti avrebbe potuto difenderli dinanzi alla stessa Autorità, o davanti al Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti.

Perché non poter accedere al dato, magari depurato e ridotto a mero elemento di statistica?

È un paradosso che si può illustrare con un esempio: se si predisponesse un’indagine statistica sui macchinisti delle ferrovie (non me ne vogliano, è solo un esempio perché guidano treni con persone  a bordo, ma potrebbe trattarsi di piloti di aerei o operatori ecologici), per sapere quanti di loro fanno uso di sostanze alcoliche, senza il loro consenso non potrebbe essere effettuata. Se l’azienda ottenesse lo stesso dato senza le dovute autorizzazioni, scoprendo che una percentuale di loro fosse alcolista cronico (magari analizzando con macchinari fantascientifici il loro alito), voi, come cittadini, prendereste il treno più tranquilli? Io non voglio sapere chi è alcolista, ma voglio sapere se c’è qualche alcolista tra di loro, così scelgo volontariamente se correre il rischio di avere un autista ubriaco. Anche  se non c’è il loro consenso a che si sappia quanti sono.

Allo stesso modo, voglio sapere, come cittadino ed elettore, se tra i componenti della classe dirigente c’è una percentuale di tossicodipendenti alta o bassa, se ci sono alcolizzati, se pagano regolarmente le tasse, eccetera, perché poi sono loro a scrivere le leggi che regolano la mia vita e quella dei miei cari.

Alla prossima settimana

Giulio Magno