FOGLI MOBILI

La rubrica di Gloria Bardi  

A PROPOSITO DI EUTANASIA  

Il ritorno in prima pagina dell’eutanasia mi risospinge verso le mie tematiche d’elezione, di cui ho già scritto nei tempi in cui su questo stesso settimanale redigevo una rubrica di bioetica.

Per non affastellare di nuovo argomentazioni già sviluppate, rinvio dunque a...Terry, Eluana e gli altri... e mi limito ad alcuni rilievi.

Innanzitutto occorre fare un po’ di chiarezza lessicale: non è corretto parlare, come ho sentito fare da parlamentari in tivù, di esclusione dell’eutanasia da parte della morale cristiana, dal momento che le comunità protestanti hanno preso, ad esempio in Olanda, una posizione di riconoscimento del diritto alla buona morte. E fino a prova contraria, i protestanti sono cristiani. Inoltre nel Vangelo non si parla di queste cose, che risalgono invece alle concezioni metafisiche di Tommaso d’Aquino che definiscono la teologia e l’antropologia cattoliche.

Più in generale, il principio che muove chi esclude su basi religiose l’eutanasia, come pure la fecondazione assistita e la ricerca sulle staminali embrionali è molto semplice:  la vita non ci appartiene ma è dono, come tale indisponibile. Tanto vale per il nascere quanto per il morire. Si tratta quindi di una posizione categorica che non prevede distinguo: la vita umana è un valore assoluto cui ogni altro valore va subordinato.

Posizione rispettabilissima fintanto che si afferma sul piano dell’etica ma, implicando una posizione di fede, dopo l’illuminismo non è estendibile mediante legge alla totalità dei cittadini di un paese.

Su questo punto occorre essere chiari: la popolazione italiana non coincide con la comunità cattolica e fare come se coincidesse è antiliberale e antidemocratico.

Il rispetto della dimensione pubblica delle scelte dettate dall’etica cattolica deve essere garantito, come per tutte le etiche comunitarie e individuali che ricadono nello stessa sistema normativo, ad esclusione di comportamenti o pratiche irricevibili come le mutilazioni genitali femminili (sempre in primo piano la difesa dalla sofferenza).

Del resto, la Corte di Cassazione ha stabilito il diritto da parte dei testimoni di Geova a rifiutare la trasfusione di sangue.  

Ma in che modo può essere comminata una condanna a vivere a una persona che chiede di poter morire perché ritiene la sua vita dannosa?

E la condanna “a vita” ha aspetti di crudeltà maggiore della stessa “condanna a morte”, quando si considerano le piaghe da decubito, le infezioni, la noia insostenibile, il senso di esclusione dalla vita. Lo abbiamo visto tutti Welby, come abbiamo visto, pur nella finzione cinematografica, i tentativi che la giovane protagonista di Million dollar baby fa per uccidersi, recidendosi a morsi la lingua per provocarsi un’emorragia letale. E questo avviene nella realtà.

Guai a generalizzare coi casi umani: vanno soppesati uno per uno, distinti. Ciò che conta è la percezione del singolo che vive, per cui in identiche condizioni materiali possono esserci diverse volontà e quelle vanno rispettate.

La tecnologia, il respiratore ecc. hanno rimescolato le corrispondenze tra i principi e i fatti: cosa significa NEMINI LAEDERE? In questo caso ledere significa prolungare o consentire di interrompere la vita?

E la vita può essere un valore assoluto, tale che in suo nome si debba obbligare a soffrire?

O alla vita deve potersi accompagnare la percezione del suo valore?

Io sono convinta che il diritto debba ispirarsi a una morale minimalista che non parta da visioni sacrali o fondate su dignità variamente intese ma che parta da un dato che è sotto gli occhi, gli orecchi, le mani di tutti noi: la sofferenza.

Chi soffre va protetto dal soffrire e, nel caso dell’uomo, solo il singolo può decidere quando la sofferenza è tale da mangiarsi il valore stesso della sua vita.

Detto questo, l’eutanasia pone l’obbligo di enormi cautele, che garantiscano che la decisione è veramente quella del soggetto e non di altri, laddove il singolo è in grado di decidere, come nel caso di Welby.

Per molti aspetti più spinoso è il caso di inconsapevolezza, come per Terry o Eluana, cui viene incontro la possibilità di redigere TESTAMENTO BIOLOGICO, dove dare disposizioni anticipate nel caso in cui si dovessero verificare simili condizioni. L’introduzione di tale pratica in Italia è stata conseguenza della ratifica della Convenzione Internazionale di Oviedo ma da noi resta una legge a mezz’aria, dal momento che non sono ancora state redatte le disposizioni applicative. In ogni caso il testamento da noi potrebbe non essere rispettato, dinanzi all’obiezione di coscienza del medico che dovrebbe applicarlo.

Cosa sacrosanta l’obiezione di coscienza, che però nell’Italia dell’ipocrisia e della sudditanza, rischia di diventare uno strumento per boicottare norme e diritti, come quella sull’interruzione volontaria della gravidanza, spesso inapplicabile per scarsità di non obiettori.

Del resto, si sa bene che in certe strutture ospedaliere chi non è obiettore non fa carriera, per cui la coscienza finisce per entrarci poco e male.

Al contrario, chi tra gli studenti di medicina pronuncia obiezione di coscienza sulla sperimentazione animale di carriera ne fa poca.

Ritengo che questo sia il compito essenziale della riflessione biopolitica in una società pluralista: tutelare, con un’argomentazione stringente ma che non abdichi mai all’empatia,  la varietà dell’umano, la differenza dei singoli casi, senza per questo sconfinare nel “tutto lecito” ma tenendo per fermo l’obbligo di diminuire o non incrementare la sofferenza, dinanzi a quei grandi assoluti che sono, spesso in modo contrapposto, le Chiese e la Scienza.

Gloria Bardi

   www.gloriabardi.blogspot.com