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UOMINI E BESTIE

8: Prospezioni dell’immaginario

Leones

Parte seconda 

Eliano dedica alla belva parecchi capitoli della Natura degli animali. Ecco quanto se ne cava, escluso quello che già tramite Plinio e Aristotele conosciamo, da una rapida lettura. Dialogano coi negri (III 1; sarebbe interessante chiedergli in quale lingua). In III 21 si legge l’episodio celebre dell’orso. 

Scrive Eudemo [ignoto] che sul monte Pangeo [Putnardag] in Tracia un orso, sopraggiunto nella tana incustodita di un leone, ammazzò i cuccioli che erano piccoli e non sapevano difendersi. Ma in quel momento il padre e la madre tornarono dalla caccia e quando videro i cadaveri dei figli, in preda ad un’ovvia pena corsero addosso all’orso che, spaventato, s’arrampicò su di un albero il piú velocemente possibile e vi rimase, tentando cosí di evitare la loro aggressione. Ma poiché era chiaro che erano venuti là per punire chi aveva distrutto la loro prole, la leonessa si pose in agguato sotto il tronco senza lasciare la vigilanza e guardando in alto cogli occhi iniettati di sangue, mentre il leone, smanioso e tormentato dall’afflizione, correva per i monti, sinché non incontrò un tagliaboschi: costui si spaventò al vederlo e lasciò cadere la scure ma il leone, pur essendo una belva feroce, agitò la coda e, sollevatosi sulle zampe posteriori, gli fece festa come poteva, leccandogli il volto colla lingua. L’uomo si rinfrancò e il leone, avvoltagli intorno al corpo la coda, se lo tirava dietro e gli faceva cenno colla zampa di raccogliere la scure, perché voleva che non la dimenticasse. Poiché non capiva, la prese in bocca lui stesso e gliela porse, il boscaiolo lo seguí e la bestia lo condusse alla tana. Come lo vide, la leonessa gli s’accostò agitando anch’essa la coda e lo guardava con atteggiamento compassionevole, volgendo spesso gli occhi verso l’albero dov’era l’orso. L’uomo capí e, intuendo che avevano subíto un torto da esso, si mise a tagliare l’albero con tutta la forza delle braccia, l’albero cadde, l’orso precipitò a terra e le due fiere lo dilaniarono. Il leone poi riportò l’uomo, incolume e senza alcun danno, nel posto dove l’aveva incontrato prima e lo restituí alla sua precedente attività di tagliaboschi.

 

Democrito sostiene che nascono ad occhi aperti (FVS IIA156 DIELS-KRANZ, secondo schol. T HOM. Il. XI 554 perché, possedendo una gran vampa interna, temono il fuoco e non li chiudono mai), gli Egizi che sono “piú forti del sonno”, onde li assegnano al Sole in quanto sono come lui “instancabili” (cfr. HOM. Il. XVIII 239). Oltre che poderosi sono anche intelligenti, tendono insidia ai bovini nelle stalle (cfr. HOM. Il. XI 172) e ne abbattono uno dopo averli spaventati tutti, poi, divoratone quanto li sazi, alitano sui resti per comunicare agli altri carnivori che non s’azzardino a mangiarli in loro assenza, ma sdegnano di tornarvi se nel frattempo trovano prede fresche. Addomesticati, sono assai miti: Berenice (sarà la moglie di Tolomeo III, ca. 273-21a, ma ce ne sono anche altre), Onomarco “tiranno di Catania” (non risulta) e il figlio di Cleomene (quale: il I, il III, il Naucratita?) ne possedevano uno (V 39). Durante una spedizione militare di Giuba (I, re di Numidia non di Mauretania come dice Eliano, padre del II) avendo un giovane del suo séguito colpito un leone senza ucciderlo, quando, un anno dopo, l’esercito ripassò per il medesimo luogo, la belva identificò il feritore e lo fece a brani (VII 23, è una variante della fola già vista nella precedente scheda che ricambiano l’aggressione). VII 48 contiene la celebre novella di Androclo e il leone, che si trova anche in AUL. GEL. V 14, 1 sqq. 

Apione, soprannominato Plistonice [lasciò iscritto il tronfio appellativo di Pleistoníkēs, “quasi sempre vincitore”, che s’era dato lui stesso, su una gamba del Colosso di Memnone: DITTENBERGER OGI 662. Tiberio lo chiamava cymbalum mundi: PLIN. SEN. praef. 25. Scrisse Aigyptiaká in 5 ll., nel III e IV dei quali raccolse gli argomenti contro i Giudei da lui esposti a Caligola durante una legazione del partito alessandrino antisemita, contrastati da Giuseppe Flavio nel Contra Apionem, rimastoci. Era, come prova la cit. di Aulo Gellio, un gran contaballe. I frr. in FHG III 506-16 MUELLER], fu uomo di molte lettere ed esperto conoscitore di numerosi e varii aspetti della cultura greca. Circola un suo libro d’una certa fama, in cui raccolse una rassegna di quasi tutti i prodigi che si vedono o si raccontano in Egitto. Potrebbe forse apparire un po’ troppo chiacchierone quando, per mancanza di misura e per un eccessivo amore dell’ostentazione, elenca tutto ciò che sa per averlo letto o sentito, infatti non perde mai l’occasione di millantare la vastità delle sue conoscenze; comunque, afferma di non aver trovato in un libro o udito raccontare quanto ora diremo, riportato nel quinto libro delle sue Storie egizie, bensí d’esserne stato lui stesso testimone oculare in Roma. Cosí dunque scrive: “Nel Circo Massimo si offriva al popolo lo spettacolo di una ricchissima venatio. Trovandomi per caso a Roma in quel periodo, vi assistetti. Le belve feroci erano molte, straordinarie le loro misure, mai vista prima l’aggressività o l’aspetto, ma piú d’ogni cosa fu oggetto di meraviglia la grandezza incredibile di un leone che superava tutti gli altri e da solo, colla sua irruenza e le sue dimensioni, col suo ruggito terribile e possente, colla criniera fluttuante sul collo muscoloso, aveva attratto a sé l’attenzione e lo sguardo di ognuno. Insieme con molti altri era stato gettato nell’arena a combattere contro le fiere lo schiavo di un nobile consolare, di nome Androclo. Quando il leone, ancora lontano, lo vide, súbito si fermò come stupito, poi gli s’accostò con passo lento e tranquillo, quasi volesse riconoscerlo. Giunto vicino allo schiavo, semisvenuto per il timore, si mise ad agitare la coda senza violenza e carezzevolmente, al modo dei cani che fanno festa, gli s’appoggiò contro e gli leccò con dolcezza le gambe e le mani. Androclo di fronte alle manifestazioni d’affetto dello spaventoso animale riprese coraggio, a poco a poco levò gli occhi per esaminarlo e allora, come se entrambi si fossero riconosciuti, si videro l’uomo e il leone farsi reciprocamente festa”. Apione dice che alla vista di un cosí singolare spettacolo sorse fra il popolo un gran vocio, Androclo fu portato in presenza dell’imperatore e gli fu domandato per quale motivo quel leone tanto feroce avesse risparmiato lui solo. Egli rispose raccontando questa storia straordinaria e mirabolante: “Quando al mio padrone fu affidato il governo proconsolare della provincia d’Africa [la Tunisia], anch’io mi recai laggiú e fui costretto a fuggire a causa delle ingiuste percosse cui egli ogni giorno mi sottoponeva. Perché il mio nascondiglio fosse piú sicuro da lui, che aveva autorità su tutto il paese, mi ritirai nel deserto sabbioso ed aperto, deciso a cercare in ogni modo la morte se non avessi trovato cibo. A mezzodí, quando il sole ardeva rabbioso, trovata per caso una caverna remota e occulta vi penetrai in cerca di rifugio. Poco dopo però nella caverna entrò questo stesso leone, che avanzava malfermo con una zampa insanguinata e mandava gemiti e gorgoglii di lamento per l’aspra sofferenza della ferita”. Androclo continuò dicendo che in un primo momento, all’apparire del leone, il suo animo si riempí d’un gran terrore, “ma poi, quando il leone, entrato in quello che con ogni evidenza era il suo covile, mi scorse in distanza quasi svenuto per lo spavento, mi si avvicinò mite e mansueto e lo vidi levare la zampa e mostrarmela, tendendomela come se mi chiedesse aiuto. Allora gli tolsi una grossa spina conficcata nella pianta del piede e feci uscire la suppurazione che si era formata all’interno della ferita, poi quasi del tutto rinfrancato la pulii e con molta attenzione asciugai completamente il sangue. Liberato del dolore grazie alle cure che gli prestai, il leone si sdraiò al suolo lasciandomi la zampa tra le mani e s’addormentò, e da quel giorno per tre interi anni io e lui vivemmo nella stessa spelonca e spartimmo lo stesso vitto. L’animale infatti mi provvedeva nella caverna le parti migliori delle prede che aveva catturato ed io, non avendo la possibilità d’accendere il fuoco, le mangiavo dopo averle fatte arrostire al sole di mezzodí. Ma ad un certo punto mi stancai di quella vita bestiale e, una volta che il leone era uscito a caccia, abbandonai la grotta. Dopo aver camminato per circa tre giorni fui avvistato e arrestato da un plotone di soldati, poi rimandato dal mio padrone a Roma. Egli súbito fece in modo che fossi condannato alla pena capitale ed esposto alle fiere. Ora so che il leone fu catturato anch’esso dopo la mia partenza e mi restituí il favore di avergli reso un servigio curandolo”. Son queste le parole di Androclo secondo Apione, il quale aggiunge che il suo racconto fu riportato su una tavola da scrittura e fatto circolare fra il pubblico, onde su richiesta di tutti egli fu graziato della punizione e liberato e ricevette in dono il leone per espresso desiderio della folla. “Da allora -termina Apione- si vide Androclo girare per le botteghe della città col suo leone ad un sottile guinzaglio, e tutti gli davano del denaro, gettavano fiori alla belva e quando lo incontravano dicevano sempre: ‘Questo è il leone che ospitò l’uomo, questo è l’uomo che guarí il leone’”.

 

La favola compare anche in AES. 69 GIBBS (= PERRY 563, ADEMAR 35: Leo et pastor, manca il nome proprio del protagonista), nei Gesta Romanorum 104 (Androclo diventa un cavaliere del re), nel Policraticus di Giovanni di Salisbury (CIC 582 PL MIGNE: Androclo diventa Andronico), raccontata poi a milioni di bambini americani nei Fifty Famous Stories Retold by James Baldwin (1896) e portata sulla scena da George Bernard Shaw, Androcles and the Lion (1912), che divenne un film diretto da Chester Erskine nel 1952.

Ci soffermiamo un po’ di piú su XII 7 perché offre una documentazione interessante: gli Egiziani adorano i leoni, allevati in appositi recinti sacri, e gli hanno dedicato la città di Leontopoli (Tell el-Muqdam sulla bocca di Damietta, capitale dell’XI nomo del Basso Egitto, in cui rovine del sacello di Maahes-Mysis, il dio-leone patrono della guerra e guardiano dell’orizzonte, attendente di Ra nella quotidiana lotta contro Apep-Apophis sulla “barca dei milioni”). Siccome sono molto focosi, li attribuiscono ad Efesto (Ptah), oppure al Sole, che raggiunge il suo culmine quando entra nella costellazione del Leone (Pettazzoni, L’essere supremo, 1955, pensava che l’associazione del sole al leone risalisse al IV millennio, quando il sorgere eliaco della costellazione avveniva al solstizio estivo; Campbell, Il racconto del mito, trad. it., 1995, che l’energia vitale della fiera fosse eguagliata a quella dell’astro). Si allevano leoni all’ingresso dei templi del dio Sole in Eliopoli (Tell Hisn nel suburbio del Cairo, capitale del XIII nomo del Basso Egitto; del grande santuario che ospitava il tempio di Atum e Re-Horakhty, secondo solo a quello di Amun in Tebe, non si conosce la collocazione precisa). In sogno predicono ai prediletti il futuro e puniscono immediatamente quanti si siano resi colpevoli d’aver violato un giuramento (effettivamente era questo uno dei compiti cui assolveva Maahes per ordine di Osiride). Anche Empedocle (fr. 31B127 FVS DIELS-KRANZ) diceva che, dovendo trasformarsi un uomo in animale, il meglio per lui è diventar leone (o alloro se in pianta; non si tratta di metempsicosi a parer mio, bensí della fusione delle parti di vari viventi ricordata nel fr. 8 FVS). Torna ora all’Egitto: la parte anteriore del leone appartiene al fuoco, quella posteriore all’acqua (non mi risultano riscontri, in egiziano may- sono i fiancheggiatori delle divinità eliache, custodi dell’orizzonte al sorgere ed al tramontare del sole; una possibile interpretatio cristiana verrà riferita in una prossima scheda). Ricorda poi la duplice natura, femminile e ferina, della sfinge, citando un frammento di Euripide (540 TGF NAUCK), e infine, col suo tipico disordine espositivo, aggiunge alcuni versi di Epimenide (fr. 457F3 FrGH JACOBY) sul leone nemeo caduto dalla luna. Si dice che i leoni “di terra” temano i “leoni di mare”, che dalla descrizione dovrebbero essere gli astici, e non ne sopportino l’odore; il loro guscio polverizzato e misto ad acqua gli evita però le malattie di stomaco (XIV 9). Nascono anche i leoni indiani, selvaggi ed enormi, con un vello nero che s’increspa in modo pauroso; se addomesticati da piccoli, servono anche come cani da caccia (XVII 26; i leoni indiani effettivamente esistono -ne parleremo in séguito- e nei felini si verificano fenomeni di melanismo parziale). Il popolo africano dei Nomei (altrimenti ignoti) si dice sia stato annientato dall’aggressione concertata di una colonia di leoni (XVII 27). Amano particolarmente la carne di cammello (XVII 36, richiamando HER. VII 125).