BIOPOLITICA

Il ricordo dell’11 settembre

                     di GIULIO MAGNO    versione stampabile

La giornata del quinto anniversario dell’11 settembre 2001 è stata celebrata dai mezzi di informazione con una serie nutrita di programmi su quasi tutte le reti televisive, a partire dal primo mattino sino alla tarda serata.

La sequenza terrificante degli attentati di quel giorno si alternava alle immagini disperate di angoscia dei testimoni, di impotenza e sgomento delle forze di polizia e dei pompieri.

I documentari trasmessi si sono soffermati soprattutto sul dolore dei parenti delle vittime, sull’orgoglio disperato dei congiunti di coloro che persero eroicamente la vita nell’assolvimento del loro dovere. Con commozione ho seguito quasi tutte quelle trasmissioni.

Poi, a sera, nel coricarmi, mi sono quasi vergognato di un pensiero, che è poi tornato prepotente ad occupare la mia mente il giorno dopo, e dopo ancora. E la vergogna ha lasciato il posto alla rabbia.

Perché, dopo cinque anni, le vittime del terrorismo continuano a subire discriminazioni, a seconda del campo nel quale cadono?
Perché le musiche, le immagini toccanti hanno cittadinanza esclusivamente per i caduti di una sola parte?
Forse le vittime civili di nazionalità diverse da quella statunitense sono di minore numero? Tutt’altro!

Le decine e decine di migliaia di morti civili causate dall’aggressione americana e britannica all’Afghanistan prima e all’Iraq dopo sono solo un effetto collaterale?

Credo che la politica dell’amministrazione Bush e del socio (di minoranza?) Blair in campo internazionale si debba stigmatizzare descrivendola con l’unica definizione appropriata: criminale.

Anche negli Stati Uniti, seppure con clamorosi casi di censura, non si esita a denunciare il cumulo di menzogne che era alla base delle due “imprese”militari (la parola imprese è quanto mai appropriata, vista la sovrapponibilità totale degli interessi economici di chi ha partecipato alle due invasioni con quelli di coloro che l’hanno promossa e guidata), ma la cosa sembra che passi in secondo piano, nel mondo occidentale.

Chi ha il coraggio di dire che, a questo punto, in Iraq la situazione è fuori controllo, e che in Afghanistan i Talebani hanno ripreso il controllo di molte città?

La libera stampa delle democrazie occidentali? Perché non si parla di guerra civile, perché quella parola è tabù per gli americani, a tal punto che i paesi-zerbino come il nostro non possono scriverlo sui propri giornali?

Avete notato che hanno smesso da tempo di comunicare il numero dei caduti della coalizione nel paese che fu il regno di Saddam? Sono già oltre tremila, ma se lo nascondono, come nascondono, del resto, il numero complessivo di perdite civili causate dalle azioni militari, dalle malattie e dalla guerra civile, che con la loro pazza politica di aggressione hanno generato. Ma l’Onu tace, noi tacciamo,  e lo stillicidio prosegue, con buona pace della coscienza del cittadino qualunque, che continua a vedere ciò che vogliono fargli vedere, a sentire quello che vogliono fargli sentire, a piangere le vittime che vogliono fargli piangere.

Il valore di una vita, come il dolore di una morte, non può avere un peso diverso a seconda delle latitudini.

Forse i morti del crollo delle due torri di New York avevano maggiore diritto alla vita dei bambini iracheni bombardati a tappeto dai B-52, vittime com’erano anche questi di una pazzia collettiva?

Chiunque direbbe di no, certamente.

Ma allora perché per quei bambini morti altrettanto ingiustamente non ci sarà nessuna trasmissione di commemorazione, nessuna musica toccante, nemmeno un cenno?

L’unico modo di rimediare a questa inciviltà è quello di avere il coraggio di parlarne, rompendo il vero e proprio muro di omertà che la censura politica ha creato.

Censura. Un termine esagerato, dirà qualcuno.

Ma come definire l’assoluto silenzio degli organi di informazione, la mancanza totale di statistiche che di solito riempiono persino i rapporti dei militari dopo ogni campagna sul territorio nemico?

Sembra che i Talebani e gli iracheni “cattivi”abbiano fatto a gara per separarsi dalle popolazioni alle quali appartenevano, per farsi ammazzare senza causare gli effetti collaterali.

E poi perché, nell’immaginario collettivo, gli iracheni sono i cattivi e gli americani sono i buoni? I Talebani sono inumani oppressori, odiati dalla gente, e gli alleati della coalizione sono portatori di pace?

In Afghanistan i Talebani erano espressione del fondamentalismo religioso, è vero, ma comunque espressione di quella società: infatti ancora vi sono e lottano per riassumere il controllo del territorio. Il loro oscurantismo non è peggiore del corrotto regime instaurato dalla coalizione, traballante simulacro di una vera democrazia.

In Iraq il binomio americano-buono/iracheno-cattivo è esattamente da rovesciare, con gli statunitensi invasori ed assassini sul presupposto di notizie false sino alla spudoratezza.

Allora gli iracheni sarebbero ora da definire resistenti, o partigiani, non è così? Eppure nessuno si azzarda  a farlo, perché questo avrebbe un costo politico enorme, per chi, come noi, vive all’ombra dell’Impero americano.

In questi anni abbiamo visto un film, non la realtà. Esattamente come non siamo riusciti a renderci conto dell’enorme atrocità dell’attacco alle due torri, perché non lo abbiamo visto da vicino, non potremo mai capire l’oceano di dolore nel quale sta navigando una regione del mondo che è stata stuprata con l’inganno, inganno che ancora aleggia e inquina i mille rivoli delle notizie che ci arrivano da laggiù.

La politica ha la responsabilità di tutto questo, soprattutto ha la responsabilità, per quello che riguarda il nostro Paese, di tacere, di negare una verità che i nostri mezzi di informazione hanno scomposto in un caleidoscopio di frammenti irriconoscibili agli occhi dei più. Il mio sogno è che la nostra politica riesca a scrollarsi dalle spalle il mito del marine americano che regala caramelle o cioccolata ai bambini, che porta pace e prosperità ai popoli oppressi da infami regimi. Questo è stato in parte vero, nel passato, ma ora?

Non si può fingere di dimenticarsi delle vittime, non si può negare al dolore la cittadinanza nelle nostre coscienze, se non si vuole pagare il prezzo di essere oggetto di odio implacabile da parte di chi vede morire due volte chi gli sta vicino.

Ecco perché quella politica è da chiamare criminale, poiché aggiunge dolore a dolore, desiderio di vendetta a desiderio di vendetta.

Pensateci, il prossimo 11 settembre.

Alla prossima settimana

Giulio Magno