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MA

Romanzo in dieci racconti di Gloria Bardi

La casa di Matilde Agosti

La casa di Matilde Agosti, quella dove aveva preso alloggio in seguito al matrimonio con Stefano Campochiesa, avvocato civilista, era sistemata in quello che lei chiamava onesto disordine ma che gli altri definivano altrimenti, chi dantescamente bolgia, chi, più classico, caos, chi, più popolare, casino, o, popolar-saputo, bordello, chi, sua madre, festa a Napoli.

E a lei l'ordine sarebbe piaciuto ma non le riusciva mai di realizzarlo o, per lo meno, non del tutto. Il fatto è che alle prese con le faccende domestiche, o con il quotidiano riassetto del manomesso (anche questa è una sua espressione), Matilde Agosti, in Campochiesa, da intellettuale di buona scuola si sentiva un po' sprecatella.

Così accadeva che, mentre era intenta a stirare, le venisse in mente il suo Huizinga, iniziato dieci giorni prima e non ancora finito, oppure di non conoscere nulla del pensiero teologico irlandese o del rapporto esistente tra medicina omeopatica e filosofia orientale. Allora, avvinta nel pensiero di queste e di più allarmanti omissioni, oppure trainata lontano da vari collegamenti di idee, finiva ogni volta per bruciare qualcosa; anzi, chissà per quale motivo, si trattava sempre di una camicia di Stefano Campochiesa avvocato civilista, suo marito. Allora si innervosiva, strappava dalla presa la spina del ferro, si gettava bocconi sul letto e mandava al diavolo la sua distrazione, i lavori domestici, le camicie dei mariti, e in ultimo lui, e Stefano Campochiesa, l'insipiente integratissimo.  

Quando poi si trattava di riassettare, non faceva che spostare le cose per la casa, senza trovarvi mai definitivo ricovero. Probabilmente cercava così un compromesso tra le sue omissioni. Tra quella di ordine pratico, che sarebbe nata dal lasciare, ad esempio, sul tavolino del salotto la bottiglia del Martini e i bicchieri sporchi, e quella di ordine teorico, che sarebbe derivata dal concentrarsi troppo su quelle faccende, dimenticandosi di pascolare la mente.

Per cui Matilde Agosti, se non metteva a posto la bottiglia, o ciò di cui si trattava, nemmeno la lasciava dov'era: la spostava da un luogo all'altro, riservando a un non meglio determinato "dopo" ulteriore collocazione. Sì, perché di tappe ne erano prevedibili almeno ancora un paio, variamente distribuite nel tempo, prima che gli oggetti riuscissero a riguadagnare il proprio convenzionale rifugio, ciò che poi non accadeva pressoché mai, perché nel frattempo il Martini, tanto per mantenere l'esempio, faceva in tempo a servire nuovamente e quindi a ritornare alla partenza come nel gioco dell'oca.

Anzi, la casa di Matilde Agosti, segnata da un progressivo dinamismo degli oggetti, che la percorrevano avantindietro con scarsissime speranze di traguardo, era propriamente un grande gioco dell'oca.

E lo erano anche, per converso, le sue letture;  infatti il tempo risparmiato sulla collocazione degli oggetti, Matilde lo spendeva nell'aprire un libro e leggerne qualche pagina, sempre in fretta e senza mai giungere alla fine di un capitolo, quando non di una pagina o di un capoverso. Perché a quel punto, all'improvviso le veniva in mente di dover finire di stirare il collo della camicia, o di annaffiare le piante oramai avvezze ad una stato di semimorte costante o, semplicemente, che forse il Martini sul coperchio del water era un'esagerazione. Allora sospendeva la lettura per tornarvi poco dopo allo stesso modo e con pari sequenze. Insomma, anche qui, prima della fine capitolo, Matilde si accorgeva di aver letto distrattamente e di non aver ritenuto nulla e che, allora, sarebbe stato meglio riprendere da capo, per capire almeno qualcosina in più.

Alla fine di una giornata spesa tutta in simili singulti, Matilde Agosti era stremata di fatica. Letteralmente accasciata sui cuscini, rosa dall'insoddisfazione, diceva con un filo di voce,

tanta gliene consentiva l'energia superstite, a mo' di pensierino della sera: "matrimonio e vocazione intellettuale sono inconciliabili".

Lo diceva un po' tra sé, un po' al marito, il Campochiesa, che ogni volta le tastava il polso e le saggiava la fronte senza riuscire a capire come potesse sua moglie, una donna giovane e in generale di buona salute, essere così sfinita, e che lo fosse non vi era alcun dubbio, per aver stirato tre quarti di camicia, aver spostato di due metri e mezzo una bottiglia, aver lavato un quinto del pavimento di cucina e aver letto due pagine di Francesco Alberoni, lei che un tempo affrontava ore di Kant senza battere ciglio. E tutto ciò in un’ intera giornata!

Va detto, per essere giusti, che il pover’ uomo, quando spegneva la luce e si voltava sul fianco destro, era sinceramente preoccupato e ogni volta si riprometteva di consultare uno specialista e, intento a studiare il modo per farlo senza allarmare Matilde, finiva per addormentarsi, mentre lei, Matilde, preventivava l'indomani più o meno così: "devo stirare i pantaloni, lucidare i pavimenti, sbrinare il frigorifero. Però, dovrei proprio rileggermi Il lupo della steppa". Allora accendeva la luce del suo comodino, si alzava, andava alla libreria, prendeva il libro, tornava a letto e cominciava a leggere. Poi pensava che forse era meglio limitarsi a rileggere il passaggio che la interessava, ma mentre era intenta a cercarlo, considerava che se non si fosse concessa un buon riposo, le camicie e il resto l'avrebbero trovata l'indomani priva di energia. Allora posava il libro, che veniva così introdotto nel gioco dell'oca generale, e spegneva la luce per poi ripensarci ecceteraecceteraeccetera. Insomma, chi avesse guardato la camera dei Campochiesa dall'esterno, da quanto ne poteva filtrare dalle fessure delle tapparelle, avrebbe di certo pensato che l'illuminazione vi fosse regolata da un sistema ad intermittenza come quelli dell'albero di Natale.

La prossima settimana   MATILDE AGOSTI: CONFRONTO GENERAZIONALE SUL TEMA