FOGLI MOBILI

La rubrica di Gloria Bardi  

Tempo fa scrissi, su invito di un noto semiologo un'analisi sui tratti distintivi del capitalismo in Italia da includere in un suo prossimo libro sul caso Fiorani.

Il libro poi, dopo alterne vicende, non è stato pubblicato e io ho deciso di dedicare il mio breve contributo ai lettori di Trucioli, che mi leggeranno per alcune settimane in veste più professionale e linguaggio meno immediato, spero che la cosa non sia sgradita.  

 

Capitalismo all’italiana?

 

prima parte
 

Interverrò nel discorso sul capitalismo di casa nostra delineandone i tratti fondamentali e tentando di rintracciarne la matrice culturale, quale emerge dalla storia del paese, il cui tratto distintivo è la perdurante strutturale feudalità.

     Siamo un paese essenzialmente, verrebbe da dire geneticamente, feudale e lo riveliamo soprattutto in taluni aspetti,  quali la tendenza al padrinato e il familismo. Ora, il sistema feudale[1] è essenzialmente fondato sul privilegio, sul patto d’onore, sul personalismo dei rapporti, sulla gerarchia. Del resto, anche quando nacque la civiltà comunale i nuovi organismi non abbandonarono il modello del privilegio, spesso preteso e ottenuto dai detentori del potere. È il privilegio che dà consistenza al soggetto che ne gode, e l’organismo che ne deriva, inaffidabile e precario, rappresenta l’esatto contrario del sistema orizzontale delle regole concordate e trasparenti che costituisce il modello delle democrazie nate dalle rivoluzioni borghesi dell’età moderna, come già vide Tocqueville.

    Il privilegio è ciò che sottrae un individuo, un clan o una corporazione alla trama delle regole comuni, in virtù di un rapporto ad personam con un altro individuo, un clan o una corporazione; goderne, sotto forma di impunità, franchigia, raccomandazione, appare gratificante e distintivo. Insomma l’Italia è un paese in cui non ci si vergogna a dire, se non proprio con le parole certo coi fatti, la famigerata frase “lei non sa chi sono io!”. Silvio Berlusconi, ad esempio, è un “lei non sa chi sono io” elevato a potenza: quello che molte persone di buon senso definiscono con proprietà “conflitto d’interessi”, riportandolo modernamente in una costellazione di rapporti sociali turbati con pregiudizio dell’insieme, viene recepito da noi come una naturale forma di “privilegio”.

     Non è un caso che la questione si appunti proprio sul privilegio per antonomasia, che costituì l’elemento scatenante di eventi rivoluzionari, ovvero l’esenzione dalle tasse: mi limito a citare il caso americano studiato nel classico libro di Nevins e Commanger. Ma bisogna fare alcune distinzioni. Ciò che nel medioevo era conseguenza del lignaggio o dello stato sacerdotale, nel feudalesimo di ritorno cui assistiamo oggi è frutto della furbizia, nella cui strumentazione rientra a pieno titolo la bugia. In buona sostanza il codice feudale si è sposato, nei passaggi storici, con quello mercantile, senza abbandonare il principio fondamentale. L’organismo è feudale, il dispositivo è mercantile. Così al codice d’onore aristocratico, costituito attorno all’introiezione di valori e a una fondamentale magnanimità e vocazione a soccorrere i deboli, è subentrato il codice della furbizia, costituito attorno all’opportunismo individualistico, capace solo di sgomitare.

      Va precisato, per dare al discorso una prospettiva culturologica, che in Italia, conclusasi con i processi a Bruno e a Galileo la grande stagione umanistico-rinascimentale, mancarono elaborazioni storico-culturali capaci di recepire e di sostenere teoricamente la nascente società borghese attraverso una rifondazione dei valori che riflettesse e ancorasse il nuovo assetto. Mi riferisco in particolare alla Riforma protestante e all’Illuminismo. Ma prima di affrontare questo tema, ritengo utile dettagliare meglio l’organismo che il privilegio tende a produrre quando il privilegiato possa a sua volta divenire dispensatore di privilegi, costituendo in tal modo un sistema personalistico e carismatico, fondato sulle gratuità (per “grazia ricevuta”) e la fidelizzazione personale degli elettori-vassalli. Questo è ciò che impedisce agli organismi in crisi, sia economici che politici (vl. i partiti), di rimuovere i quadri. Ed è ciò che ha fondamentalmente impedito il costituirsi di una meritocrazia.

     È vero che, come sostiene Diamanti, negli ultimi quindici anni sì è registrato un rinnovamento dei partiti e sono comparsi sulla scena altri soggetti politici, principalmente nel “terzo Settore”, capaci di mitigare il rischio cui va incontro l'eccesso di strutturazione. Ma lo stesso Diamanti aggiunge giustamente che questo salutare processo s’è arrestato a metà del guado, e forse il motivo per cui il principale partito dell’Unione ha incontrato grandi difficoltà a trasformare il suo leader in candidato premier della coalizione risiede proprio nel fatto che è ancora troppo partito nel senso obsoleto del termine, e dunque fondamentalmente incapace di accettare un pluralismo reticolare dei soggetti politici che non si gerarchizzi.

       Quanto alla fidelizzazione personale, in Italia non è molto chiara la differenza tra denuncia civica e delazione. Chi sporge denuncia dinanzi alla violazione di regole sociali è piuttosto uno che tradisce qualcun altro o che non si fa “i fatti suoi”. E a proposito dei fatti propri anche la libertà, lungi dall’essere coniugata con la “responsabilità”, viene confusa, soprattutto dai giovani, con il “fare quel che cazzo voglio”. La maleducazione dilagante ne è la prova più macroscopica, ed è il segno della mancata introiezione della responsabilità che crea una corretta convivenza. E i maleducati sono, a dispetto di quanto credono, animali da dittatura, in quanto incapaci di darsi delle regole.

     Siamo afflitti da una sorta d’infantilismo politico. Non è un caso che i contrapposti leader si rivolgano agli Italiani come a dei bambini. La tavolozza in cui si definiscono i rapporti resta quella  “tribale”, fondata sull’affettività e sull’amicalità. Da qui il codice cameratesco usato dai vari protagonisti, dove il bacio diventa tormentone delle più inquietanti vicende di malcostume del paese. Anche il codice berlusconiano è fatto di rapporti affettivi, articolati intorno alle parole amore-odio, amico-nemico, buono-cattivo, comprensivi di trasporti “devozionali” come quelli di Bondi o di Fede. Si vedano, a questo proposito, i libri dedicati da Alessandro Amadori al linguaggio verbale e iconografico del premier.

     La concessione del privilegio ha anche l’importante funzione di creare divisioni nel corpo sociale e di accrescere i vincoli della dipendenza. Ricordo la propaganda elettorale con cui Forza Italia chiedeva il voto ai tassisti, in virtù di una grazia concessa alla “corporazione”. È invece di oggi l’immissione in ruolo di una categoria di “privilegiati” quali gli insegnanti di religione, la cui carriera parte da una grazia elargita dalle gerarchie cattoliche e fatta propria da chi è al potere anche in forza della recente ventata teo-con a dispetto della carriera dei “comuni” colleghi, scandita da pubblici concorsi e pubbliche graduatorie. In qualunque altro paese una cosa del genere non sarebbe di certo passata con tanta nonchalance. Così come non scandalizza nessuno l’esistenza di un’ora di religione nella scuola pubblica con insegnanti pagati dallo stato, ovvero da tutti, atei e buddisti compresi.

     Insomma la chiesa è il primo soggetto che non si fa alcuno scrupolo a fregiarsi del privilegio, pur se, leggendo i discorsi pronunciati dai vescovi e dai loro bravi neo-crociati, sembra che di ciò essi neppure si rendano conto. Il privilegio diventa diritto senza possederne le caratteristiche, se è vero che il diritto è il segno distintivo di una società non tribale. Moretti disse di Berlusconi che non è antidemocratico ma che è estraneo alla democrazia: lo stesso si può dire dell’Italia rispetto alla questione fondante della laicità, che non significa un’ideologia contraria ad alcunché, bensì la totale neutralità di ciò che è pubblico rispetto a qualsivoglia ideologia.

     In casa nostra, a dispetto di Vilfredo Pareto, Maffeo Pantaleoni, Alessandro Passerin d’Entrèves e tanti altri, il liberalismo non ha mai potuto mettere radice nei comportamenti e nei valori collettivi, cosicché si può parlare di “liberalismo imperfetto” esattamente come un tempo si parlava di “bipartitismo imperfetto” (Galli). E sempre, nel bene e nel male, per la presenza della Chiesa. Ora, non è affatto casuale che da noi ci siano personaggi che non disdegnano corruzione, pessime compagnie e baci compromettenti nella loro dimensione pubblica, senza rinunciare alla patente morale di “buon cattolico, pio e osservante” in quella privata, quasi non ci fosse possibilità di contaminazione. Ricordo che questo si verifica anche con noti personaggi di mafia,e dunque, al di là degli eccessi dovuti ad ecclesiastici corrotti, il fenomeno è “strutturale”, indipendente da buona o malafede.

     Il cattolicesimo rappresenta, come sosteneva Benedetto Croce, la matrice culturale degli Italiani. La chiesa è stata e continua ad essere magistra, a fornire modelli, a predicare un’etica rigorosa, almeno in materia di difesa della vita e di morale sessuale. Come mai, ci si domanda, una chiesa così permeante non è riuscita a comunicare, al di là del paternalismo e della beneficialità, una visione responsabile del capitalismo, della funzione pubblica e della politica? Come mai in Italia si scagliano anatemi su chi ricorre all’eterologa e non su chi produce inquinamento atmosferico?

Si va a colpire la sfera del privato e si sorvola sulle responsabilità pubbliche? In realtà, e con questo vengo al punto, c’è un apparentamento forte tra il perdurante modello feudale e la matrice cattolica.


[1] Non intendo qui la forma storica classica analizzata magistralmente da François Louis Ganshof, ad esempio, bensì quella sovrastrutturale e formalizzata della transizione dal Medioevo all’Antico Regime. L’idea di un “lungo feudalesimo” italiano, sostenuta tra gli altri già da Romano nell’einaudiana Storia d’Italia, è stata di recente ripresa da Ginsborg.

Gloria Bardi

   www.gloriabardi.blogspot.com