BIOPOLITICA

“LA BIOPOLITICA DEL  TERZO REICH” prima parte

                          di GIULIO MAGNO    versione stampabile

INTRODUZIONE

In questo breve saggio, si cercherà di fornire una contestualizzazione della biopolitica nazista, analizzandone le premesse storiche e filosofico-ideologiche.

Il tentativo sarà quello di seguire, attraverso una ricostruzione cronologica, il percorso che portò gran parte del popolo tedesco, sotto la guida delle persone che ne costituirono la classe dirigente, a credere fermamente nella necessità di preservare la nazione e l’europa intera dalla minaccia dei popoli considerati inferiori, soprattutto attraverso la guerra, ma anche mediante la “Genesung “guarigione”, cioè lo sterminio sistematico di quei popoli.

Nella prima parte, si esamineranno i caratteri ideologici delle forze che si affermarono nel contesto politico tedesco: come vedremo, tale percorso affondò le sue radici in un passato ben più risalente della nomina di Adolf Hitler a Cancelliere del Reich, nel Gennaio del 1933, e trovò un potente fattore germinativo nella sconfitta del 1918 e nel “tradimento” degli ebrei come concausa essenziale di tale rovescio.

Ma le ragioni del consenso che i partiti della destra nazionalista germanica poterono raccogliere, in una Repubblica di Weimar in piena crisi istituzionale, non possono essere cercate solo nel malcontento popolare delle fasce più deboli della società tedesca, investita da una poderosa crisi industriale nell’immediato dopoguerra, sulla quale si aggiunse il peso insopportabile di una recessione mondiale, inaugurata dal venerdì nero di Wall Street del 1929,  che avrebbe fatto sentire i suoi effetti in Germania solo un anno più tardi; la contemporanea presenza di una forte frustrazione della società che aveva creduto nella possibilità di successo nell’immane conflitto, di un ceto intellettuale che sembrava, prima della guerra, aver idealizzato il confronto che si profilava, come vedremo, al punto di fornire un’interpretazione soprattutto romantica dello “scontro tra popoli”, e di una classe imprenditoriale e latifondista conservatrici e senza scrupoli costituiscono altri tre pilastri fondanti del successo del nazionalismo tedesco. 

Nella seconda parte, si cercheranno di illustrare le peculiarità del nazismo nella sua interpretazione estrema della politica della vita, attraverso un’analisi dei progressi compiuti dalla genetica e dalla biologia del tempo, delle mistificazioni che tali scoperte scientifiche subirono in nome del razzismo biologico, e la descrizione del graduale approccio alla soluzione finale compiuto dai vertici nazisti, a partire dal periodo immediatamente posteriore al 1933.

La politica nazista nei confronti della vita fu estremamente diretta, nel senso che non adottò la biologia come metafora, ogni mediazione concettuale venne meno, i politici furono i biologi del regime, e lo si vedrà per il ruolo primario rivestito dai medici nell’attuazione dell’olocausto. 

La Kriegsideologie 

Prima di analizzare il contesto tedesco, è bene chiarire che la Kriegsideologie, l’ideologia della guerra, che si sviluppa in Germania negli anni precedenti al Primo conflitto mondiale, non fu un fenomeno peculiare degli Imperi Centrali: in Italia, Francia ed Inghilterra, analoghe campagne di “reclutamento” fecero la loro comparsa nel medesimo periodo.

Tuttavia, le differenze tra la Germania e i Paesi dell’Intesa restarono profonde: se in Francia si propugnava il conflitto per difendere ed affermare gli ideali della Rivoluzione Francese, o più genericamente la difesa della democrazia, (nonostante l’alleanza con la Santa Madre Russia[1]), in Germania le fondamenta filosofiche dell’ideologia guerresca, oltre a quelle fornite soprattutto da Nietzsche (assume qui grande rilievo il concetto di degenerazione, ripreso e mediato dalla tradizione della criminologia antropologica italiana, dalla teoria ereditaria francese e dalla rilettura razzista della genetica di Mendel, da parte di vari autori,  per i quali compito storico della Germania è quello di salvare l’occidente dalla minaccia della degenerazione), si allargarono all’idea della rottura con una banalità della vita quotidiana, all’interpretazione in chiave romantica del momento bellico.

La morte, così presente nei giorni del conflitto, tornava prepotentemente nelle vite di ogni giorno, ed alcuni intellettuali tedeschi vi colsero persino un mezzo per arricchire il quotidiano, per restituirgli il suo vero valore.[2]

Nella Kriegsideologie, quindi, la morte ricopriva un ruolo essenziale, e l’impeto di adesione al grande momento della storia europea, presente in tutti i paesi coinvolti (con l’eccezione della Russia, forse, per motivi di arretratezza politica delle masse), in Germania si colorava di un romanticismo peculiare, che arrivava a considerare la morte qualcosa di più della “eroica morte” o “bella morte”: la comunità tedesca percepiva, se pur con le dovute eccezioni, come del resto in tutti i paesi europei, la morte come un legante potente, un momento di conferimento di senso alla vita quotidiana, che proprio per il fatto di cessare, a causa del conflitto, di per sé stessa diviene elemento di sacralità, di comunione.

Il trionfo della Gemeinschaft sulla Gesellschaft, della comunità sulla società, è un tema che tornerà, come vedremo, nell’armamentario ideologico del nazismo, che dalla sconfitta militare e dalla frustrazione degli aderenti alla Kriegsideologie trarrà le proprie origini.

Gli altri elementi della ideologia della guerra furono la polemica contro la “sicurezza borghese”[3],  spesso interpretata come elemento accomunante il marxismo ed il movimento operaio, contrapposta al sacrificio dei valorosi sul campo di battaglia, la onnipresente forza del destino  (Schicksal, contrapposto a Zivilisation – pensiero razionale e calcolatore), che si salda indissolubilmente con il concetto di comunità e con quello di sacrificio.

La vittoria dell’Intesa, che vide la Germania Imperiale soccombere senza aver subito effettivamente alcuna determinante sconfitta militare, aveva accelerato il manifestarsi della crisi delle istituzioni guglielmine, che non avevano mostrato certo una adeguata flessibilità di fronte ai grandi cambiamenti imposti dallo sviluppo industriale; di fatto, la società tedesca postbellica era ancora viziata da rigide stratificazioni e privilegi tipici di un paese  socialmente arretrato, mentre le istanze di democrazia provenienti dalle fasce più deboli della società venivano ignorate.

La “rivoluzione” del Novembre 1918, che diede vita alla Repubblica di Weimar, non era riuscita nel tentativo di sovvertire compiutamente l’ordine sociale prebellico, e la nascita delle istituzioni parlamentari repubblicane fu possibile grazie ad un compromesso tra la socialdemocrazia ed il vecchio Stato maggiore.

Questo compromesso fu una delle cause principali del naufragio repubblicano: la radicalizzazione dello scontro politico pose la socialdemocrazia tedesca di fronte alla necessità di combattere la sinistra più radicale, spesso ricorrendo alla forza, e la classe politica liberale, omogenea alle classi sociali più conservatrici, in quel clima di guerra civile non riuscì a cogliere il nodo essenziale della debolezza delle istituzioni democratiche e contribuì indirettamente al loro esautoramento.

Le inique condizioni della pace di Versailles unitamente alla sottrazione delle colonie tedesche poi, piuttosto che aiutare la nuova Germania a crescere, risultarono ispirate agli stessi principi imperialistici della “vecchia” Germania.

Questo secondo, grande tassello, con le polemiche che seguirono la questione delle riparazioni di guerra,  offrì solide argomentazioni alle parti politiche più conservatrici e nazionaliste, che, cercando di asseverare il mito della patria pugnalata alle spalle da chi al fronte non era stato mandato (gli scioperi del 1917-1918 erano stati interpretati infatti come il tradimento degli operai “comunisti”, in un periodo in cui effettivamente molti lavoratori guardavano ad Est, e agli sviluppi della ben più famosa Rivoluzione di Ottobre), rivalutò i miti del nazionalismo e del pangermanesimo, della invincibilità delle armi tedesche, e della necessità di un profondo rinnovamento sociale, con un ritorno al glorioso passato prussiano. 

Il nazismo raccolse il successo esaltando i temi centrali della Kriegsideologie, e cioè comunità, morte, pericolo, destino e fondendoli con la ricerca di un capro espiatorio della sconfitta, ora individuato nelle istituzioni repubblicane, ora con le”razze” inferiori, colpevoli di avere ordito trame rovinose per le ambizioni del popolo tedesco.

Nella cultura tedesca di quegli anni, godette di una certa popolarità E. Burke, autore schieratosi contro gli ideali universali della Rivoluzione, e a favore di una concezione dei diritti come patrimonio storicamente determinato dalla comunità di un certo popolo.

E non a caso: negli anni immediatamente posteriori al Primo conflitto mondiale, e persino durante lo stesso, la Germania si sentiva accerchiata.

 Gli stati dell’Intesa, infatti, si professavano portatori di ideali universali, democratici, antagonisti del conservatorismo ed autoritarismo degli Imperi centrali; ad Est, la Rivoluzione di Ottobre costituiva un pericoloso promotore di unificazione delle masse, e la Società delle Nazioni pareva essere stata creata con il solo scopo di tenere in soggezione gli interessi tedeschi.

Tutto ciò non poteva che rafforzare il mito della peculiarità della cultura e delle tradizioni tedesche, ed infondere il timore che potessero correre reali pericoli.[4]

Un altro elemento che costituì una conseguenza logicamente necessaria  della Kriegsideologie fu il tema dell’unità dell’Occidente.

Le necessità militari dello spaventoso sforzo bellico avevano spinto le potenze coloniali a condurre al fronte truppe di colore, reclutate nei possedimenti d’oltremare, e ciò venne visto dagli intellettuali tedeschi[5], che saranno successivamente vicini al nazismo, come un pericolo per tutta l’Europa, perché avrebbe permesso alle popolazioni delle colonie di apprendere l’arte militare e di minare la superiorità dell’uomo bianco. Vi è di più. L’Imperatore Guglielmo II, nell’abdicare alla fine della guerra, ammonì l’Europa a non abbandonare la Germania nelle mani del bolscevismo, infliggendole, tra le condizioni di resa, umiliazioni troppo gravi da sopportare.

(Questo tema, della crociata contro “i mongoli”, sarà alla base della politica della guerra senza prigionieri contro i russi, che il Fuhrer scatenerà con l’Operazione Barbarossa, nel Giugno del 1941.)

Attraverso questa posizione, seguendo il naturale sviluppo dell’ideologia della guerra, si consolidò la metafora dell’Occidente visto come un fortino assediato, e fu inevitabile registrare un aumento esponenziale del numero dei potenziali nemici. Gli ebrei non tardarono quindi a comparire, soprattutto come sotterranei organizzatori del complotto bolscevico-ebraico. 

Ma perché proprio e soprattutto gli ebrei?

Uno dei protagonisti della Kriegsideologie, W. Sombart, in gli Ebrei e la vita economica del 1911, descrisse la contrapposizione tra gli eroi ed i mercanti, dove ovviamente i primi erano rappresentati dai tedeschi ed i secondi dagli ebrei: il popolo ebraico, con il suo retaggio anazionale, che conservava proprie peculiarità anche laddove si era insediato da più tempo,  non poteva non essere additato come il campione dello stato borghese e liberale, della Gesellschaft, della società, opposta alla comunità.

La rivoluzione di Novembre, che in Germania aveva instaurato la Repubblica Weimeriana, era stata considerata dagli intellettuali nazionalisti il frutto dell’accordo tra il bolscevismo e la comunità ebraica, e la particolare propensione alla rivolta, al sovvertimento sociale dei leaders ebrei, era stata studiata dal sociologo Weber, che intravide persino una “sete di vendetta” nel libro dei Salmi, una caratteristica divina di furia vendicatrice.[6]

Essendo un popolo guidato da un dio vendicatore, pervaso da risentimento, non poteva che incarnare il capro espiatorio di tutte le frustrazioni che il fallimento della Kriegsideologie aveva portato tra le file dei nazionalisti tedeschi.

Già nel 1911, nell’opera citata,  Sombart indicava gli ebrei come un popolo privo del senso della peculiarità storica, tipici rappresentanti della società e non della comunità, che come conseguenza, non agendo a favore del popolo che li accoglie, si rendono nemici e sovversivi

Ciò che può generare sorpresa, è che gli stessi ebrei, in Germania, non sfuggivano alle logiche della ideologia di guerra, anche se necessariamente modificate e rovesciate: il concetto di Comunità del sangue veniva contrapposto all’ideologia del sangue e del suolo, e proprio il non avere legami con la terra, faceva del popolo ebraico l’unico popolo realmente pacifista: “all’ebreo mancano tutti gli elementi che potrebbero costituire la nazione e renderla per lui una realtà: il paese, la lingua, le forme vitali[7]

Tutto ciò, ovviamente, contribuì a rafforzare i pregiudizi della destra nazionalista e razzista tedesca nei confronti del popolo ebraico.


[1] D.Lo Surdo – La comunità, la morte, l’occidente – Bollati Boringhieri Torino 1991 p.10

[2] Ibidem, pp.11-12, citando- S.Freud – Considerazioni attuali sulla guerra e la morte – 1915- Opere a cura di C.L. Musatti vol.8 Torino 1976 pagg.137-9

[3] “la brama di tranquillità è un sentimento decadente, e risulta comunque profondamente estranea agli esemplari più alti del genere umano” O. Spengler- Der Mensch und die Technik – 1933 Monaco 1971 in D. Lo Surdo op. cit.pag.21

[4] Cfr.D. Lo Surdo op.cit. pp53-55

[5] Non solo in Germania vi fu questo atteggiamento, che annovera tra gli intellettuali tedeschi coinvolti lo stesso M. Weber, ma anche in Italia B. Croce stigmatizzò, pur comprendendone il realismo, l’uso degli stranieri delle colonie nel conflitto. Cfr B. Croce -  Frammenti di etica – 1922 in Etica e Politica – Bari 1967 p.143

[6]  M. Weber - Economia e Società - 1921 a cura di P. Rossi – Milano 1968 p.495

[7] M. Buber – Drei reden..Francoforte 1920 in LoSurdo op.cit. p. 102

Giulio Magno

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