Non se ne può più della vecchia scontatissima dicotomia Beatles - Rolling Stones che i media ci rifilano da quattro decenni
ALCUNI GRANDI DEI ’60 DA RISCOPRIRE

Massimo Bianco

Basta! Non se ne può più della vecchia scontatissima dicotomia Beatles - Rolling Stones che i media ci rifilano da quattro decenni, insistendo perfino in questa estate 2006, all’approssimarsi della visita italiana delle “Pietre Rotolanti”, come se nella musica pop rock non fosse mai esistito altro di significativo. Certo, Beatles e Rolling Stones hanno avuto un successo enorme e sono stati e sono artisticamente e storicamente fondamentali. Come chiunque mastichi un poco di rock ben sa, a loro si possono far risalire i due sottogeneri principali in cui viene abitualmente suddiviso questo genere musicale e cioè il pop dei più puliti, morbidi e raffinati Beatles e il rock dei più sporchi, grezzi ed energici Rolling Stones dalle possenti radici blues. Di più: hanno portato un nuovo modo di vestire, di pettinarsi, perfino di essere giovani. Grazie al loro successo mutarono i costumi dell’epoca più o meno in tutto il mondo raggiunto all’epoca dalla cultura anglosassone. Da qualche parte un po’ di più, nell’Italia bacchettona del festival di Sanremo forse un po’ meno. I primi iniziarono con simpatiche canzoncine d’amore leggere, piacevoli ma di non eccelso spessore, ispirate al beat, che da qualche anno stava emergendo come novità musicale. Melodie a un tempo facili e trascinanti che poco per volta si andarono a sviluppare in spessore musicale e testuale. I loro brani si arricchivano strumentalmente e tecnicamente di pari passo con un evoluzione meno perbenista nell’aspetto esteriore dei musicisti stessi. I secondi che, in contrapposizione agli “insetti beat” e seguendo la logica di un accurato battage pubblicitario, dovevano rappresentare il lato cattivo della musica giovane, iniziarono la carriera suonando rozze e possenti cover di classici del blues e rhyhtm blues nero, per poi imparare poco alla volta a comporre brani originari mentre con il trascorrere degli anni rendevano sempre più possente e più rock il proprio suono.

La fatidica domanda, preferisci Beatles o Rolling Stones, era in effetti una richiesta di scelta di campo e significava: preferisci il più morbido e raffinato pop o il più grezzo e viscerale rock? 

Gli anni ’60 hanno però hanno rappresentato l’epoca d’oro della musica rock & pop. Decine e decine di gruppi e di solisti emersero durante quella stagione, con una varietà di temi straordinariamente ricca e irripetibile, regalandoci ore di musica ad alti livelli. Quasi tutto ciò che è musicalmente nato dopo si può in un qualche maniera ricondurre a quegli anni. Chi oggi si innamora del rock non dovrebbe trascurare quella basilare età dell’oro. E la varietà di temi e di sonorità dell’epoca è talmente elevata da rendere davvero troppo semplicistico limitarsi ai due pur mitici nomi. Alla domanda preferisci i Beatles o i Rolling Stones offrirò allora una risposta più articolata: prediligo loro e i Kinks e i Family e i Led Zeppelin e i Kaleidoscope e parecchi altri. In particolare vorrei approfondire brevemente, come semplice invito all’ascolto, questi ultimi quattro grandi gruppi citati, autori di percorsi musicali tra loro così lontani da poter fornire tutti e quattro insieme un’ampia panoramica della musica giovane anni ’60, magari aggiungendo anche quei Country Joe & the Fish di cui ho scritto nel recente passato su questo sito. Nonostante la loro grandezza i più giovani e i meno esperti molto probabilmente non li avranno mai ascoltati, forse neppure mai sentiti nominare (a parte i Led Zep, naturalmente, dai quali non posso comunque prescindere) e questo è un autentico peccato a cui vorrei rimediare.

Prima di tutto i Kinks. Coevi dei Beatles, fondati dai fratelli Ray e Dave Davies con Peter Quaife e Mick Avory, si dedicarono alla musica beat come e (eresia?) meglio dei Beatles. Canzoni brevi, sui tre minuti di durata, semplici ma incisive. Melodie e riff vivaci unite a testi di alto livello letterario, come purtroppo raramente accade nel mondo del rock, basati principalmente su satire graffianti della società britannica o su dure accuse al mondo del music business. Gli attivissimi Kinks continuarono l’attività per circa trenta anni producendo decine di dischi e ricercando sempre nuove soluzioni sonore senza quasi mai sbagliare un colpo. Avrebbero meritato il medesimo successo ottenuto dai Beatles e invece sono finiti nel dimenticatoio; almeno per quanto riguarda grande pubblico e media, perché se andiamo a vedere decine di gruppi odierni che vanno per la maggiore si ispirano direttamente a loro. Non sarebbe dunque il caso, cari appassionati di musica, di risalire direttamente a cotanta fonte? I loro dischi fondamentali, a volte autentici capolavori, sono numerosi. Ne cito qui quattro, gli ideali per avvicinarsi alla loro musica. “Something else by the Kinks” (1967), forse il loro più compiuto, immortale album beat, “The Kinks are the village green preservation society” (1968), il loro primo e più riuscito concept album, “Muswell Hillbillies” (1971) con cui si avvicinarono splendidamente alle sonorità tradizionali statunitensi, “Low Budget” (1979), forse il più rappresentativo del periodo tardo, tosto ed energico.

Sui Led Zeppelin si può sorvolare, sono famosi ancora oggi. Basti qui ricordare che partendo dal blues hanno virato a un tempo verso il folk acustico britannico e sonorità orientaleggianti e verso l’hard rock, possente ed elettrico, di cui sono stati i principali iniziatori. Quasi tutti i loro album, stimolante miscellanea di blues, folk e hard, meritano l’ascolto, in particolare i primi quattro.

I Family furono attivi a cavallo tra i sessanta e i settanta, guidati da Roger Chapman, cantante dotato di un’incredibile e robusta voce di gola e Charlie Whitney, chitarrista e principale compositore. Oltre a loro unico membro stabile fu il batterista Rob Townsend. Si posero intelligentemente a metà strada tra la scuola rock di stampo classico e quella più sperimentale del periodo. La loro proposta musicale si indirizzò verso sonorità psichedeliche, folkeggianti e perfino progressive, il pretenzioso genere rock di cui furono anticipatori. Loro incisero però concise ballate, raffinate e strumentalmente assai ricche, con inserimenti pianistici e di altri strumenti allora meno usuali per il rock come violino, sax o vibrafono mai fini a se stessi ma che anzi arricchivano con il loro contrappunto la trama chitarristica di base dei vari brani, senza appesantirla e senza mai giungere a sbrodolarsi in suite lunghe e noiose. I loro primi sei album sono quasi egualmente meritevoli ma a personalissimo parere di chi scrive l’apice della loro produzione i Family lo raggiunsero con il secondo lp “Entertainment” (1969) e con il terzo “A song for me” (1970), entrambi sofisticati ma privi dei barocchismi del disco di debutto e più creativi di quelli successivi. Autori meno facili di altri protagonisti del rock, richiedono di essere ascoltati con una certa attenzione per penetrare appieno il loro mondo sonoro.

Infine qualche parola in più vorrei spenderla per i leggendari Kaleidoscope perché nessuno oggi, a parte gli addetti ai lavori e pochi esperti, si ricorda che siano mai esistiti e questo è per me un autentico crimine. Attenzione però, non è un caso se oggi sono sconosciuti, perché a orecchie educate ai facili ritmi e suoni della musica leggera la straordinaria arte dei Kaleidoscope può risultare straniante e ostica. Chi ama davvero la musica deve però assolutamente fare la loro conoscenza. Al contrario degli altri gruppi citati non furono inglesi ma statunitensi della California e non vanno confusi con un’omonima ma minore band psichedelica albionica. Gruppo aperto, con forse i soli Solomon Feldthouse e Chester Crill alias Max Buda (e altri pseudonimi) presenti in tutti i loro dischi. Dischi in cui si alternarono una decina di artisti a tutto tondo, estrosi polistrumentisti, abili arrangiatori e compositori di vaglia. La loro scelta sonora fu quella di andare a riscoprire e rivitalizzare le radici della musica nordamericana, cercando al contempo di impossessarsi della tradizione musicale degli altri continenti, inventandosi una incredibili miscela di blues, country e cajun (genere suonato dalle minoranze francofone della Louisiana), folk europeo occidentale e balcanico e suoni sia del medio sia dell’estremo oriente, il tutto con risultati unici e mai più ripetuti (i soli Camper Van Beethoven degli ’80 li ricordano). I Kaleidoscope riprendevano alla loro maniera brani tradizionali e componevano anche pezzi originari. Scioltisi in apparenza in maniera definitiva nel 1976 dopo il quinto album, nel 1990 portarono a compimento una estemporanea e riuscita riunione, con il consigliatissimo “Greetings from kartoonistan.” Particolarmente significative nella loro opera risultano alcune lunghe ma mai stucchevoli suite. Ricordiamo ad esempio Seven-ate sweet, un brano in crescendo in stile arabeggiante di ben 11,37 minuti elettro acustici di lunghezza, Taxim, 11,20 minuti strumentali di straordinaria creatività e fascino oppure Klezmer Suite, 7 minuti per riscoprire la musica popolare israeliana. A eccezione del mal risuscito quarto long playing, tutti i loro lavori sono ottimi e in particolare “A beacon from Mars”(1968) e “Incredible!”(1969). Non saprei dire se attualmente i loro lavori siano in catalogo (l’etichetta discografica originaria era la Epic) ma vale comunque la pena di darsi da fare per procurarseli, garantito. 

Massimo Bianco