Si votò il 2 giugno, nell' ex sede della milizia portuaria, saccheggiata il 25 luglio '43 dalla gente che, prima, aveva sfasciato le immagini del duce; poi aveva, per bisogno, portato via le suppellettili...
RICORDI
ri/COSTITUENTI

                                      di Sergio Giuliani      versione stampabile

 Era il 1946. In una giornata di sole, il 19 marzo, Fausto Coppi era passato sulle strade appena appena rattoppate da Milano a Sanremo e la sua bicicletta verdolina, la maglia biancoceleste e il lungo naso a tagliare l' aria e a far da eco alla smorfia di fatica avevano davvero riaperto le porte della normalità.

Aveva staccato di 23 minuti il secondo, il francese Lucien Teisseire, andando in fuga sul polveroso Turchino.

Gran folla sulle strade; tanta gente che ritrovava il gusto del discutere, con una carica che oggi neppure s' immagina, compressa com' era stata per vent'anni. La retorica fascista si era dissolta e si riprendeva, faticosamente, ma con tanto entusiasmo, la via del civile e magari un poco arrabbiato confronto delle idee. I pochi camions erano di cooperative neonate e messi su coi pezzi dei "Dodge" sinistrati in guerra; le ferrovie rialzavano la testa ed eliminavano i faticosi trasbordi. A Recco si passava su un viadotto di legno che scricchiolava paurosamente al peso di convogli a passo men che d' uomo, fra cisterne d'acqua antiscintille (le locomotive erano, spesso, quelle dell'esercito americano, con un solo fanale in alto, alla Polifemo) e cartelli dell' impresa Lodigiani.

Finito il cigolante supplizio, il treno si slanciava deciso, come si fa per passata paura e come stava facendo l'Italia, tra sconfitta e cobelligerante.

Mio padre ed i suoi colleghi ferrovieri, nelle ore del riposo, si ritrovavano sul muretto di corso Vittorio Veneto o sulla panca del casello ferroviario di Domenico e di Lucia Marchelli. Lui era un uomo piccolo che parlava forbito perché era stato in seminario: faticava moltissimo al marchingegno per alzare le sbarre, ma lo faceva con solennità, tutto compreso, dopo che era rumorosissimamente suonato un telefono a pomello ed egli aveva risposto ad alta voce. Domenico e Lucia si scambiavano il turno e, fra la curiosità della gente aggrappata ai cancelli, presentavano al treno che passava a gran velocità una logora e bisunta bandiera rossastra arrotolata che, subito dopo, ricollocavano nel casotto prima di azionare il marchingegno delle sbarre.

C'era di che discutere, in quell' Italia dei sei partiti, neonati ed antichi. Ma tra i lavoratori due erano i prescelti; il comunista ed il socialista, perché era vivissima la volontà di rinnovare la scena politica. Se c'erano democristiani, stavano defilati e non si dichiaravano troppo. Due, tra i più chiacchieroni, sostenevano l' idea di un sindacato macchinisti autonomo (che mai nacque, perché era in rotta di collisione con la rinata e sentitissima solidarietà: un treno viaggia se tutti gli addetti, dal capo movimento a chi gira il "macaco" degli scambi fanno bene il loro lavoro) Un anno dopo, i due saranno risucchiati " ovvio!" dal vento saragattiano.

Si discuteva, eccome. Persino dell' amnistia che Togliatti, ministro guardasigilli, aveva concesso per i reati commessi da fascisti contro oppositori del regime, anche con gravi crudeltà: cedimento o magnanimità da vincitori?

 Si discuteva se fosse lecito che Togliatti usasse un' automobile, oggetto, allora, rarissimo e di gran lusso, e mio padre a replicare che un leader-ministro (per poco!) si deve spostare sempre e rapidamente: necessità, non lusso.

Maturavano al sole di primavera le premesse dell' incanalare le idee di democrazia partecipata maturate nei venti mesi di guerra partigiana in un patto sociale, in una legge fondamentale e ci si rendeva conto di come l' Italia fosse stata divisa in due, dal '43 al '45, con un sud liberato dagli angloamericani e che si era visto piombare addosso il re ed il suo seguito (non il governo: i ministeri si erano dissolti in polvere a Roma) che potevano qui vantare una "continuità" dello stato, ora alleato con l'antico nemico, e il nord, disertato da ogni forma di potere, abbandonato tragicamente a guerra aperta ed occupato subito dall' esercito tedesco non più alleato, ma tollerato almeno da una minoranza ancora fascista.

I discorsi fra ferrovieri erano spesso contraddittori, con aperture e chiusure allora spiegabili con la mancanza di pratica della democrazia. Ricordo che Landini era contrario a concedere il voto alle donne perché, diceva, e molti annuivano, anche per paura di un risultato negativo, che le donne avrebbero votato o come diceva il marito o, peggio (e Landini era un veterosocialista), come diceva il prete. Dimenticava, probabilmente, di aver visto, poco meno di un anno prima, sfilare sul Corso le donne partigiane: una per tutte Angiola Minella, la partigiana Lola, dal bel viso aperto, in tuta d'esercito e col mitra che le penzolava sotto il petto. Non era maturità, quella?

Bisognava risolvere, e presto, la questione istituzionale, perché la Costituzione, che tutti gli antifascisti avevano in mente, doveva essere repubblicana e non graziosamente concessa da un monarca. Gli occupanti alleati, da vincitori, non volevano turbamenti in un' Italia strategicamente indispensabile al di qua di quella che si andava profilando come una "cortina di ferro" e propendevano per la continuità col prefascismo. Capirono ben presto che la situazione sarebbe degenerata e, obtorto collo, approvarono il referendum istituzionale.

Comizi tesissimi e pieni di folla: c' era di che temere una patta, tra le due Italie con storie recenti tanto diverse: a nord un interesse politico risvegliato e incontenibile, a sud un' antica "saggezza" per cui non si perdonava certo al re la guerra e l'antisemitismo, ma non si parlava di fuga, di abbandono dell' Italia, magari vogliosa di battersi, all' invasione nazista. Il re, in fondo, aveva riparato, armi (si fa per dire!) e bagagli da loro.

Si votò il 2 giugno, nell' ex sede della milizia portuaria, saccheggiata il 25 luglio '43 dalla gente che, prima, aveva sfasciato le immagini del duce; poi aveva, per bisogno, portato via le suppellettili: brande, coperte militari e quanto poteva diventare utile a chi non aveva più casa.

Nicolino era un operaio della Servettaz-vasche che avevo visto spesso a casa nostra, forse ad ascoltare radio Londra con papà, con fare d'intesa. Mi disse che, al voto, si era sentito piegare le gambe dall'emozione ed era ancora un poco scosso e fiero. Al seggio, guardava i votanti entrare e contava chi era amico e chi no, nell'urna.

Anch' io entravo nel seggio, tra i militari, ai quali indicavo una patacca rossa sulla maglietta e dicevo  "Staffetta del partito Comunista". Ma stavo sulla porta, perché usciva subito il "rappresentante di lista" con dei fogli a caselle rosse e numeri, alcuni marcati a matita. Correvo alla sezione, allora sul lungomare, e c' era chi prendeva nota di chi non aveva ancora votato e ci si muoveva a suonare alle porte, tentando la convinzione: che lavoro, a ripensarlo oggi.  Si chiusero i seggi e c'era, per le strade ora vuote, un gran sole polveroso.

Raccolsi un fac-simile portato dal vento, in bianco e nero, con due figure: una corona e una donna con le torri sulla testa. Uno dei simboli era marcato con una ics spessa e nera; lo lasciai a riturbinare.

I risultati si attesero giorni: i primi, dal Sud (naturalmente?) davano gran voti alla monarchia. Qualcuno ritornò nelle strade, nei capannelli, a chiedere, tra irato ed impaurito: ma Milano; ma Genova, ma Torino? Eccoli, quei risultati, annunziati dal Ministro Romita, piccolo e coi baffetti un poco a spiovere: vince la Repubblica!

Chissà se lo capii che era il passo indispensabile per la Costituzione che venne promulgata un anno e mezzo dopo, in operoso ed aperto confronto fra le ideologie, democratiche tutte, ma, spesso, contrastanti per principi etici e per gradualità di riformismo.

Una copia venne esposta nell'atrio del Comune: andammo tutti a"vederla"e ne facemmo la nostra icona: uno degli obiettivi fondamentali della Resistenza era stato acquisito. La Costituzione non era stata graziosamente elargita da un potere sovrano, ma acquisita dalla coscienza collettiva e voluta con sorprendente nettezza di prospettive.

A fine mese andrò a votare: ho le idee molto, molto chiare sul referendum. Noi anziani abbiamo (e vorremmo tanto comunicarla a chi, per età, non c' era!) la prerogativa del ricordo di quei giorni: la gente che festeggia, il re di maggio finalmente costretto ad andar via da quell' Italia che aveva disinvoltamente abbandonato, scappando da Roma, ad un tragico destino e che saluta da un finestrino d' aereo uno sparuto insieme di ultras, un galantuomo come Enrico de Nicola scelto a Capo provvisorio dello Stato e che presto darà le consegne al galantuomo Luigi Einaudi, Calamandrei che spiega la Costituzione ai giovani delle scuole con accenti civilissimi e commossi. Nel mio insegnamento ho comunicato sempre un detto che ho in testa da allora: "Santa democrazia, tue leggi adoro..."

E'  il mio comandamento.

Sergio Giuliani