I libri dei truciolanti: “Mistero napole(i)tano” di Ermanno Rea (Einaudi)

                                      di Sergio Giuliani      versione stampabile

  Il grande, inevitabile parlare, in queste ore, del “comunista” Giorgio Napolitano si coniuga, per me, con la continua ed attenta rilettura del più ammaliante romanzo ma non tanto del giornalista e scrittore partenopeo. Difatti, ai vetero discorsi di chi ce l’ha coi “rossi” e basta, senza sapere perché e senza voler capire che cosa fu il comunismo all’italiana (ma sarebbe meglio parlare di comunismi) l’opera del maggior Rea (Domenico è, infatti, inesorabilmente passato) offre la trama per capire la qualità etico-culturale del neo Presidente della Repubblica italiana, quasi ci fosse stato da aggiungere un ultimo capitolo, rasserenante e pieno di futuro.

            Napoli e la sua classe intellettuale non conobbero la Resistenza strutturata come al Nord, anche se non mancarono i meravigliosi episodi di lotta delle “Quattro giornate”; non conobbero, dei partiti politici, che lo stanco ripetersi del crocianesimo (il nuovo antifascismo, per forza di cose, maturava tra le bande partigiane ) e il gingillarsi con l’opzione monarchica.
Ci vorrà tempo perché si capisca che Vittorio Emanuele III si era rifugiato presso gli angloamericani e aveva abbandonato l’altra metà del suo regno a sorte cruenta, Per il Sud, finiva la parentesi del fascismo, sentito quasi come una caduta di tono, e si riprendeva con l’Italietta anni venti, clericoliberale ed impaurita dalla deriva del socialismo a sostenere l’Urss. Campione di questa politica, il Croce (che, almeno nei primissimi tempi, aveva benaccolto il fascismo) per cui vent’anni erano scivolati come acqua su pietra. Non era così, e non lo sapeva, al Nord, in cui, nelle lotte antifasciste e patriottiche, era maturata netta la coscienza dell’insopportabile trama che aveva legato monarchia e totalitarismo.

            Napoli pagò un tributo altissimo alla guerra, con centinaia e centinaia di bombardamenti, alleati prima e tedeschi dopo la liberazione. Conobbe l’occupazione americana nel suo lato deteriore (si legga “La pelle”,dimenticato pamphlet di Curzio Malaparte) ed inquinante e Rea ci ricorda come Achille Lauro, compromesso col fascismo, venne bianchettato dagli americani che gli cedettero quasi per nulla le loro navi “Liberty”, con cui fondò il suo impero del mare, purchè amministrasse Napoli tenedo ben alla larga i comunisti.

            Ma chi erano i “comunisti”? Definiamoli persone nauseate dalla criminale condotta del fascismo ed alla ricerca di una moralità non compromessa col sistema ideologico liberalcattolicomonarchico che era tanto facilmente e colpevolmente scivolato appieno nel fascismo. Persone che dicevano “no” ad ogni possibile compromesso col sistema che aveva prodotto la sconfitta bellica e l’occupazione tedesca e che non si riconobbero nella “svolta di Salerno” voluta da un Togliatti moscovita ed assente dalle  italiche vicende.

           Nacque, così, una schiera di intellettuali capaci di pensare con la loro testa, comunisti sì, perché voleva dire antifascismo (forse sarebbero stati azionisti se le sorti di questo partito si fossero diversamente svolte), ma non d’apparato. Vicini alla realtà delle lotte, delle rivendicazioni, degli aneliti alla libertà che, pur nata, avrebbe dovuto essere allevata e crescere, non erano dottrinali. Naturalmente diffidenti verso i testi “sacri” del marxismo-leninismo, lessero sì Gramsci, ma nell’edizione espurgata voluta da Togliatti. Capirono, e dolorosamente, (come tanti,t anti partigiani al Nord, delusi da quasi subito) che, un poco per tracotanza degli occupanti e vincitori americani, un poco per il risorgere di antiche trame, mai davvero recise, un poco anche per connivenza dei partiti della sinistra, bisognosi, logicamente, di acquisire il potere che avevano meritato, ma poco attenti a troppo esperte trappole tese loro, il momento magico stava passando o era addirittura di già passato. Ne soffrirono, col tipico antivedere delle classi colte del Sud, e si dispersero. Accusati di comunismo da interessati avversari, di scarso comunismo da certi compagni di cordata, finirono nel nulla. Rea impernia il suo romanzo-studio sulle figure di Francesca Spada, comunista d’entusiasmo e di Renato Caccioppoli, il grandissimo matematico naturaliter antifascista, ambedue suicidi per non poter più vivere in una società ormai “laurina” in cui si erano inesorabilmente chiuse tutte le speranze di un riscatto morale e dove ripiombava, più pesante ancora, la cappa di non essere una patria libera da padroni esterni (la sesta flotta Usa stazionava nel porto per difenderci dal “comunismo) ed interni (quel ceto che Ernesto Pontieri aveva chiamato “baronaggio”,che aveva fatto giustiziare i patrioti giacobini nel 1799 e che adesso riempiva di eletti le aule parlamentari,perché portassero l’obolo del voto ad una politica sempre più “atlantica”.

           Si rilegga “Il mare non bagna Napoli” della scrittrice partenopea, dimenticata ed ostracizzata come pochi, Anna Maria Ortese, che racconta con “sapor di forte agrume” come nacque e come morì il gruppo di intellettuali legato alla rivista-fatta-in-casa “Sud”,di Prunas, come si spensero le speranze di Luigi Compagnone, di Domenico Rea e di tanti, tanti altri che avrebbero potuto costituire l’asse portante di una cultura etico-politica davvero intelligente e libera e che il Pci di allora non seppe o non volle riconoscere, pressato com’era, forse, da contingenze pesanti ed anonime.

          Il libro di Rea mi è sembrato un “Libro dei Morti” egiziano; tutto vero, tutto palpitante, tutto dimenticato e, forse, tutto splendidamente voluto inutile e suicida, quel tempo, così poco o mai conosciuto davvero al Nord, dove il comunismo d’apparato “serioso” mal sopportava le generose prese di posizione degli intellettuali napoletani che si contemplavano ad occhi asciutti sull’orlo della deriva.

          Sono stato ad “Angiporto Galleria” (subito a sinistra dell’imbocco lato mare della Galleria Vittorio Emanuele), la stretta,s cordata piazzetta dove avevano sede i giornali in anni cinquanta. Ho rivisto Renzo Lapiccirella appoggiato a un muro, la sigaretta in bocca, dimenticato dal “suo” partito per troppo coraggio, solo mentre passa tronfio e “redento” l’immarcescibile Giovanni Ansaldo, giornalista trasformista. Ho rivisto Piegari, praticamente macinato dalla macchina schiacciasassi del partito di quei tempi.

          Io non rimpiango certo un apparato comunista (anche se attendo che gli storici ne studino errori e meriti); rimpiango certi uomini prestati al comunismo, d’intelligenza e di onestà vivacissima e coraggiose.

          Se, invece di blaterare alla moda come i cani abbaiano al nulla del chiaro di luna, certi politologi e commentatori meditassero sui libri dell’Ortese  (comunista? Certo; se altro non c’era per dichiararsi e sentirsi liberi) e di Rea, capirebbero come Giorgio Napolitano sia un inatteso regalo di quella stagione, fortunatamente non ancora morta, di come gli stanno strette le maglie che si vogliono cucire addosso al suo aver fatto politica e come molto, molto ci attendiamo dalla sua risentita ed esperta coscienza civile e morale.

         Auguri al Presidente, all’Italia e un grazie alle voci sottili, ma ancora ben udibili, degli uomini di una stagione partenopea che fu struggente e fondatrice di valori. Non dispersi.

Sergio Giuliani

P.S. Consiglio caldamente di leggere i libri di Ermanno Rea, dal primo, sulla scomparsa dell’economista riformista Federico Caffè, a quello sulla dismissione del patrimonio tecnologico e sociale dell’Ilva di Bagnoli all’ultimo, stranamente, ma coerentissimo, ambientato nel delta del Po, a svelar vicende di quattrini e di vongolari. S.G.