FOGLI MOBILI

La rubrica di Gloria Bardi 

L’AMANTE SPAGNOLA 

Credo di essermi addormentata giusto un attimo. Giusto per il gusto di spendermi un risveglio. L’attimo del non tempo, che corrisponde a non so bene quanti giri di lancette: quindici minuti? Mezzora? Un’ora? Non ho sognato però.

Credo.

E intanto una nota di sonno, testarda, cerca di riassorbirmi. Rapirmi. Affascinarmi i sensi.

Ora spalanco gli occhi, ora la frego.

Oggetti. Quanti! Da averne pieni gli occhi.

Ognuno il suo nome. Ognuno la sua bandierina di memoria.

Ognuno la sua particolare assurdità.

Oggetti. I soliti, quelli che lo scuro non modifica se è vero quello che ti raccontano da piccola, quando strilli perché hai paura del buio; te lo raccontano accendendo la luce: “guardati in giro, è tutto uguale a prima”. 

Tutto. 

Uguale. 

A prima. 

No. Non tutto tutto.

Quel ventaglio, ad esempio. Era così rosso prima?

Ci si vedono profili, sinuosità di donna.

Ci si vede il flamenco che non ho mai ballato.

L’avrò mica sognato, di ballare il flamenco?

Me ne resta l’odore, il  sapore, la voglia. Ne provo nostalgia.

Macché flamenco? Il tango! Se rinasco divento ballerina di tango, di quelle che quando sono loro in pista, tutti arretrano e restano a guardare. Darei via. Le mie tre lingue, le mie due lauree –una dovrei chiamarla “specializzazione”- i miei più di mille libri, darei via la mia casa per ballare un solo tango così. E il resto della vita ricordarmelo. 

Ridicolo pensare me senza casa senza libri senza lauree senza lingue ma col tango.

Sola in pista. Con un lui: naturale.

Tutti attorno incantati.

Ma quel lui potrebbe anche non esserci.

Io ballo il tango. Il tango balla me.   

Già, due lauree: ma una è piuttosto una specializzazione.

E delle lingue, correntemente ne parlo solo due.

E anche quel ventaglio  è piuttosto un orribile vaso anni sessanta, mezzo conchiglia mezzo geometria, con tante pieghe rosse e qualche riga nera mal tracciata. E ci vuole una bella miopia per vederci dei profili di donna!

C’è sempre stato quel vaso lì. Come ci sono sempre state le cose su cui gettiamo il buio provvisorio.

Da piccola mi risultava consolante l’imperturbabilità degli oggetti nel giro delle ore; oggi la trovo avvilente.

Mio nonno aveva avuto un’amante spagnola.

Ma guai a parlarne, in casa. Lui era ritornato a capo chino non perché si fosse stufato della Spagna ma perché era stata la Spagna a stufarsi di lui; e la sua fuga d’amore, l’unica cosa degna di essere raccontata di una vita “normale”, era stata sigillata, uccisa, come mai avvenuta.

Ma io ce la vedevo la spagnola, nei malumori del nonno taciturno, nelle sue nostalgie, negli sguardi lontani, quelli che quando li vedi negli occhi dei vecchi pensi sempre che guardino alla morte. E invece magari guardano alla vita. Sei tu che non capisci. 

E la stanza si ridipinge, ora e qui, dello sguardo che allora trasformava le cose, inseminandovi dinamismi andalusi e lasciandole così, mezze com’erano e mezze come non sarebbero mai state.

Gravide.

Di un sogno proibito, solamente suo, invisibile ad occhi troppo aperti.

Occulto. Al buon senso della gente di casa.

La caduta nel sonno, quello di mio nonno tanto tempo fa –sono anni che è morto- il mio risveglio adesso: qualcosa deve essersi incontrato nella chimica dei nostri segreti, se ho  visto, come ho visto, nel vaso più brutto della mia infanzia la Spagna più meravigliosa della sua vecchiaia.

Che idiozia. Raccontare ai bambini che il buio passa sulle cose senza trasformarle.

Decidere che il silenzio sia solo negazione. Che idiozia!

E dire loro che i fantasmi, certi fantasmi, non esistono.

Ma io vago io vago io vago col pensiero e intanto una nota di sonno, testarda, cerca di riassorbirmi. Rapirmi. Affascinarmi i sensi.

Chiudo gli occhi.

Sì, ora li chiudo gli occhi.

Li chiudo e  spero.

Che quella.

Nota.

Sia l’inizio di un tango.

 Gloria Bardi

   www.gloriabardi.blogspot.com