FOGLI MOBILI

La rubrica di Gloria Bardi 

La nascita tra desiderio e caso

Il truciolo della settimana scorsa si è chiuso all’insegna di un tema a cui tengo particolarmente, la narrazione. Scrivevo: chi se non un bambino ha diritto a una storia da vivere? Sono convinta, e ho già avuto occasione di scriverlo, che l’uomo sia, prima ancora che faber, sapiens, ridens, ludens, oeconomicus etc., homo narrativus, tale da costituirsi e alimentarsi attraverso narrazioni. Marx parlava della necessità di risalire al rapporto tra uomini sotteso al rapporto tra merci, ma il rapporto tra uomini altro non è che un rapporto tra storie. Guerra e terrorismo, con la loro cieca e spersonalizzata casualità del colpire, nascono dalla trista scissione tra l’uomo e la sua biografia. Non c’è però bisogno di raggiungere spazi tanto drammatici, è sufficiente pensare agli ospedali di una ventina d’anni fa. Ogniqualvolta un uomo viene isolato dalla sua storia si crea il presupposto di un abuso e di una violenza. Particolarmente importante è poi, a parer mio, il rapporto che ognuno di noi coltiva fra narrazione e nascita, ed a tal proposito, essendo stata di recente sollecitata, all’interno dell’Istituto di bioetica, a riflettere sul questo tema, ne ho ricavato alcune conclusioni che sottopongo volentieri anche all’attenzione dei nostri lettori. 

Non vi è dubbio che il nascere rappresenti il nostro punto alfa, l’incipit della nostra biografia, senza il quale essa risulta originariamente incompleta. La stessa cosa vale ovviamente per il punto omega, l’epilogo, che tuttavia cerchiamo di assimilare biograficamente anticipandolo e superandolo con una sorta di eredità narrativa: tali le disposizioni testamentarie di qualunque genere esse siano, tale il fatto stesso di lasciare eredi biologici o affettivi, tale il tentativo di portare oltre la morte la narrazione biografica; ogni pensamento dell’aldilà rappresenta uno sconfinamento narrativo, dai miti, spesso bellissimi, dell’oltre alle storie dei rianimati, che raccontano esperienze (separazione dal corpo, caduta a precipizio in un tunnel al cui fondo c’è una gran luce, ecc.) sorprendentemente simili.

Tra le inclinazioni dell’anima individuate da Agostino d’Ippona, l’anticipazione sembra meno limitata della memoria (la terza è l’attenzione), dal momento che, se ci è possibile immaginare la morte e recuperarla narrativamente, non ci è possibile un recupero della nascita, di cui non serbiamo memoria. Ma l’assenza dell’incipit è un’assenza pesante per una biografia, tale da pregiudicarne la possibilità stessa, ed è perciò che diventa essenziale il racconto di chi ha vissuto con noi quell’evento: ciò che non possiamo narrare noi stessi possiamo farcelo raccontare da altri, purché abbiano avuto un coinvolgimento affettivo nell’evento, se è vero che solo nell’affetto vi è riconoscimento, senso del proprio personale valere. Non contano l’anamnesi della cartella clinica né la cronaca fatta dal personale sanitario, bensì la trepidazione di coloro che hanno accolto biograficamente il nostro venire al mondo, come una svolta nelle loro storie personali. Costoro possono prendersi cura narrativamente di noi e restituirci l’incipit mancante. Ecco perché è importante restituire quanto più possibile la nascita alla comunità parentale, ferma restando in ogni modo l’attenzione agli aspetti sanitari del caso. Già l’ingresso del padre in sala parto è un fatto positivo, migliorabile comunque attraverso la costruzione di strutture meno asettiche e più “calde”, tali da non rappresentare un’interruzione netta con i luoghi del vivere. Ottima, a questo proposito, l’iniziativa delle “case del parto”, piccole strutture ospedaliere tese all’umanizzazione dell’evento-nascita. La stessa considerazione vale per le residenze protette dove gli anziani vivono il proprio tramonto, le quali devono essere “zone biografiche” e non zone asettiche, nei colori, negli arredi, nella possibilità di personalizzazione tramite oggetti pregni del proprio vissuto.

A ben vedere poi, la nascita rappresenta la rottura di un precedente equilibrio che vedeva congiunti madre e figlio, rappresenta cioè una biforcazione narrativa: da quel momento le due biografie, precedentemente unite, si separano e andranno separandosi sempre più. Tale biforcazione, dolorosa come tutte le rotture, è necessaria, e quando non viene elaborata in modo equilibrato ne risultano figli che, incapaci di costruirsi una storia propria, continueranno a rappresentare appendici della biografia materna o comunque genitoriale. In tempi recenti però qualcosa nella nascita è cambiato, dal momento in cui la diagnostica prenatale ha reso visibile, e quindi raccontabile, al di là dei segni di presenza che la madre da sempre poteva avvertire nel proprio ventre, la vita intrauterina: l’inizio della storia si è dunque esteso ad un tempo che precedentemente non era in luce. Così, la storia dei nostri bambini comincia dal racconto dell’ecografia, letta dai parenti cui sfuggono magari le proporzioni del cranio ma non il dito in bocca o la manina, il piedino etc. Ma non basta: la fecondazione in vitro ha arretrato ulteriormente l’incipit, rendendo visibile quel momento, prima del tutto misterioso, che è il costituirsi dello zigote.

Non è un caso che la Chiesa abbia seguito con attenzione questi sviluppi, e solo da quando la scienza ha fornito la possibilità di vedere l’embrione abbia deciso di considerarlo una persona, a dispetto dello stesso san Tommaso d’Aquino: perché vi sia storia occorre veder succedere. Né è un caso che non ci si preoccupi minimamente di quella grande quantità di embrioni che vengono espulsi dalla madre, senza neppure sapere della loro esistenza: chi non ha storia, o non viene accolto all’interno di una storia non è, non possiede dignità né lettura emozionale e non va tutelato. Da sempre poi i bambini che ci interrogano risalgono a quello che avvertono come il vero principio della propria narrazione, chiedendo ai genitori: “Come vi siete conosciuti?”, “Come vi siete innamorati?”. E cercheranno di soppesare quanto di se stessi sia dovuto al caso, quanto al desiderio. Ma questa è l’essenza della narrazione, che è poi il carattere fondamentale dell’umano: credo che ogni storia nasca da due componenti: il caso e il desiderio.

Gli affabulatori sanno che una storia troppo mirata sull’epilogo, riassumibile in poche righe, non funziona e ha bisogno di una serie di particolari “inutili”, che non incidono sulla narrazione ma la modificano, la disturbano, la disperdono e la rendono nel contempo reale. Tutta la nostra vita è  un tentativo di volgere il caso nella direzione del desiderio; il caso è il caos, l’insostenibile leggerezza dell’essere, ciò che accade ma poteva benissimo non accadere, l’incontro dei nostri genitori a quella certa festa di compleanno; il desiderio rappresenta invece una visione finalistica, tendente a orientare la nostra vita, darvi bussola e significato: è il fatto che i nostri genitori si sono innamorati, sentendo di essere reciprocamente destinati. Narrare significa tramare il caso col desiderio, dare significato agli eventi sottraendoli alla dispersione. Mi piace definire la narrazione “sintesi a priori o a posteriori (dipende) di desiderio e caso”, dove occorrono entrambi perché vi sia dignità. Sentirsi figli del caso, senza il desiderio, sentirsi cioè “un incidente”, è umanamente frustrante, così come lo è sentirsi figli di un desiderio imperativo, che ha del tutto escluso il caso e fa di noi “un progetto”. Siccome non siamo un puro prodotto biologico, la nostra incubazione avviene all’interno di altre storie, nel loro punto di convergenza, prima che nel ventre materno. Se però il figlio-incidente si sente respinto dalle storie incapaci di convergere dei genitori, il figlio-progetto si sentirà una mera appendice di esse. Importante quindi l’esercizio di una genitorialità responsabile, aliena dal dare la vita sia come incidente che come progetto. Se c’è da augurarsi una tecnologia che eviti malattie generatrici di sofferenza, occorre mantenere per qualunque altro aspetto la signoria del caso. Narrazione dunque, umanità in bilico tra caso e desiderio: da qui credo che l’uomo possa riprendere a pensarsi e a orientare il proprio futuro.

 Gloria Bardi

   www.gloriabardi.blogspot.com