BIOPOLITICA
L’ATTESA

Questa breve storia vuole, attraverso la finzione, sollevare alcuni interrogativi sulla reale utilità delle politiche di “regolazione” dei flussi di immigrazione correnti dai paesi del Terzo Mondo verso quelli più sviluppati.

                          di GIULIO MAGNO    versione stampabile

 

Quando l’aria tirava dalla parte giusta, si poteva sentire l’umido del mare, anche se, dall’angolo della recinzione nel quale si trovava, Ahmed non poteva comunque vederlo, il mare.

Di fronte aveva, infatti, una duna di sabbia, punteggiata qua e là da ciuffi di erba spazzati dal vento salino, che si stendeva impedendogli di gettare lo sguardo oltre la sua sagoma sinuosa.

Era arrivato sull’isola pochi giorni prima, affrontando un viaggio lungo e terribile, sopra un barcone fatiscente, che adesso era ormeggiato nel porticciolo dell’isola, circondato da un mare morto, cimitero di centinaia di imbarcazioni grandi e piccole.

Alcuni dei suoi compagni non erano sopravvissuti, moderne anime dannate sul traghetto di Caronte, e di loro si erano perse le tracce quando già si vedevano le luci della costa.

Giunti a riva, l’inutile tentativo di fuga, gli abiti bagnati, il freddo. Poi la polizia italiana li aveva radunati e portati lì, nel campo.

Cibo, vestiti, camerate con pochi bagni per troppe persone. Adesso l’unica occupazione sua e dei suoi compagni di viaggio era aspettare, ed ingannare il tempo nel modo più gratificante e più economico che conoscevano: sognare.

Sognare di una fuga coronata da successo, di una clandestinità temporanea, di un asilo politico conquistato fingendosi cittadini di un paese devastato dalla guerra civile.

Purtroppo, però, chi aveva tentato la fuga aveva solo accelerato il rimpatrio, perché scappare da un’isola così lontana dal continente, senza appoggi, era impossibile. Una volta fatto il giro delle spiagge, cosa sarebbe rimasto? Ritornare mesti al campo, o cercare una probabile morte in un’altra avventura sopra un mezzo di fortuna…

Col sole a picco, in quell’inizio di estate, i muri bianchi del Centro di Permanenza Temporanea restituivano quasi del tutto i raggi solari che ricevevano, ed era difficile mantenere gli occhi aperti.

Fuori dal recinto, qualche curioso gettava uno sguardo all’interno, stazionando alcuni lunghi minuti sulle dune di sabbia.

Più oltre non si poteva guardare, cessava il mondo sensibile, e regnava l’immaginazione, il mondo di sogni ad occhi aperti dei migranti rinchiusi.

Ahmed osservava le collinette sabbiose, e di colpo pensò che la sabbia, prima o poi, sarebbe stata spostata dal vento più forte dell’inverno, come nel deserto, che confinava con la regione nella quale era cresciuto.

Era solo questione di tempo, e quella sabbia, un granello dopo l’altro, si sarebbe fatta da parte e avrebbe permesso a quelli rinchiusi come lui di guardare al di là dell’orizzonte, di smettere di immaginare una vita diversa, che sarebbe stata lì, a portata di mano, non più nascosta ed irraggiungibile.

Avrebbero potuto vederla e viverla, forse, quella vita, invece di sognarla, da dietro ad una rete… 

 

Questa breve storia vuole, attraverso la finzione, sollevare alcuni interrogativi sulla reale utilità delle politiche di “regolazione” dei flussi di immigrazione correnti dai paesi del Terzo Mondo verso quelli più sviluppati.

Le norme che i vari Paesi ricchi hanno varato negli anni, infatti, hanno progressivamente trasformato il fenomeno dell’immigrazione da evento fisiologico di ogni cultura umana a fatto di ordine pubblico, e ciò in funzione di due elementi: la vastità del fenomeno, tanto più rilevante quanto aumentano le differenze socioeconomiche tra i paesi di partenza e quelli di destinazione, e la paura (certezza?) di dover affrontare un inevitabile declino economico, soprattutto a spese dei ceti produttivi che non possono contare su rendite di posizione (vedi monopolio).

Se i Paesi industrializzati non avessero perseguito, attraverso il controllo dei mercati mondiali per mezzo delle loro multinazionali, una sistematica spoliazione delle risorse energetiche, economiche ed umane del resto del pianeta, probabilmente non ci troveremmo a fare i conti con un gran numero di disperati alle porte, pronti a farsi sfruttare per un pugno di denari, a condizioni che non sarebbero mai state accettate dai cittadini autoctoni.

Uno sviluppo sostenibile è anche quello che permette alle economie più arretrate di conservare un margine di autonomia dal mercato, di proteggere il tenore di vita dei propri lavoratori, che altrimenti, esposti incondizionatamente alle spietate leggi dell’economia, vedono le proprie esistenze messe a repentaglio a tal punto da preferire l’ignoto ad un miserabile presente.

In alcune zone del centroamerica, i coltivatori continuano oppure smettono di coltivare i loro campi con le tradizionali colture, a seconda  della distanza dai punti di raccolta degli incaricati delle multinazionali: sono pagati talmente poco, che un chilometro o due in più da percorrere per la consegna sono la misura della redditività del loro lavoro.

Quanto a lungo quelle norme potranno garantirci un tenore di vita così elevato, rispetto al resto del pianeta? Considerate le possibilità di accesso a risorse elementari come l’acqua potabile, l’energia rinnovabile, la sanità dell’ambiente e del lavoro, della stragrande maggioranza della popolazione!

L’unica speranza è una prassi della decrescita controllata[i], vale a dire l’applicazione di una filosofia produttiva che badi anche alla sostenibilità e non solo al profitto. Solo così i popoli meno ricchi potranno guardare al futuro con un briciolo di ottimismo, senza rincorrere un tenore di vita dissennatamente votato allo spreco delle loro risorse. Quanto ai migranti, il muro di cinta costituito dalle norme restrittive dell’immigrazione, spesso create per favorire, nei fatti, uno sfruttamento spietato di manodopera  a basso costo, mi sembra sia stato veramente costruito con sabbia umida, come la collinetta del racconto: un muro che inevitabilmente crollerà, di fronte al vento delle dinamiche demografiche naturali.

Alla prossima settimana.

Giulio Magno


[i] In fondo, il PIL si può calcolare in modi molto differenti, trattandosi di una convenzione. Per affidargli un valore etico, basterebbe introdurre grandezze riferibili ad una dimensione sociale e culturale, e non esclusivamente economica.

Per esempio, quanto benessere ha creato il tale Paese in quell’anno? E come misurarlo? Riconducendo tale dato statistico all’aspetto esclusivamente produttivo, si ignora ab origine ogni “produzione di felicità” che invece dovrebbe essere alla base di una valutazione di “crescita” di una civiltà.