FOGLI MOBILI 

La rubrica di Gloria Bardi 

CASO ASTOR:LA CITTA' Si S-RACCONTA

Una delle mie figlie, Viola 17 anni, frequenta il liceo artistico di Savona.

Ieri mi ha parlato dell’abbattimento dell’Astor, a cui la sua classe ha assistito dalla finestra in presa diretta, tanto da scattare anche fotografie e pensare, dietro indicazione dei professori, a una ricerca storica.

Quello che però mi ha colpito di più è stata l’amarezza profonda con cui mi ha raccontato la cosa e l’incredulità con cui i suoi occhi vedevano, e mi descrivevano, l’immagine di una specie di ipercoop di vetro chiamata a sostituire quello che, bello o meno che fosse, era un teatro.

Insomma, non è facile far capire a un adolescente, ignaro della brodaglia di tatticismi in cui  il buon senso va in pappa, che gli adulti fanno cose di questo genere.

Che gli adulti hanno perso il senso della realtà e il senso dell’essenziale, in nome di un diktat speculativo avvilente e tendenzialmente suicida.

E’ difficile far capire a un adolescente che chi sta decidendo quale mondo consegnare loro, non ha le idee chiare su ciò che significa “genere umano”.

Sulla differenza che corre tra l’avere e l’essere.

Credo che una riflessione antropologica seria debba illuminare qualsiasi prassi politica che non voglia essere disumanizzante, ma raramente vedo questo tipo di approdo.

Insomma, è possibile decidere per l’umanità senza chiedersi chi essa sia e quali ne siano le essenzialità? I bisogni fondanti? 

La vicenda dell’Astor mi ha richiamato quanto ho visto avvenire nella mia città natale, dove al posto dei cinema storici, dove tante volte ce la siamo fatta raccontare, si sono costruiti parcheggi e supermercati. Credo che anche a Finale stiano tramando di sacrificare ad un parcheggio il cinema all’aperto. 

Io credo che l’uomo, prima ancora che sapiens o faber o ridens o ludens, sia animale narrativo, cui il narrare, nelle varie dimensioni che questa attività riveste costituisca un fondamento ineliminabile dell’umano. E’ il narrare che sottrae la vita alla dispersione del divenire e che collega in tessuti comuni la convivenza e l’interazione.

Esiste la narrazione biografica, quella famigliare e quella cittadina, politica.

Nulla di più distante dalla politica dello slogan, dello spot o del duello dove non si tesse alcuna trama dialettica.

Non c’è società umana che non si costituisca attorno al narrare.

Questo compito, anzi, era riservato in molte antiche comunità alle donne.

Si tratta di un narrare diretto, che mutua fisicamente ed è solo in parte sostituibile da surrogati quali il libro e i mass-media, specie la tivù.  Ma su quest’ultima tornerò oltre, qui preciso: un narrare fruito collettivamente che crea humus sociale. Non è certo casuale l’importanza della poesia e del teatro nella democrazia ateniese. 

Solo il narrare può restituire il concreto, sempre storico, che l’astrazione nega.   

Dove non c’è margine narrativo c’è alienazione.

Il nostro mondo, le nostre città, afflitte dall’imperativo dell’efficienza, col mito del tempo reale, e della monetizzazione, sembrano aver dichiarato guerra da più parti alla dimensione narrativa.

Pensiamo alla medicina, che ha visto scomparire progressivamente la figura confidenziale del medico di base, agente soprattutto narrativo che raccoglie, magari per compilare la voce “anamnesi”, il racconto di chi chiede cure. Si tratta di una medicina dove l’imperativo tecnologico ha soppiantato l’interrogazione fisica del corpo, essa stessa modo per “far sì che il corpo racconti”, con metodi quali palpazione o accarezzamento. La lastra radiologica, come pure il risultato di una Tac rappresenta la vittoria dell’astrazione sul vissuto, mai generalizzabile e mai separabile.

Anzi, mi è capitato di parlare con un anatomopatologo, mio compagno di studi in un master universitario di bioetica, che ha risposto alla battuta “certo, i tuoi pazienti non parlano”, ha risposto che invece raccontano e raccontano molto e che, comunque, lui sempre cercato di ricostruire dal racconto dei parenti. Non a caso il mio amico aveva avuto l’intelligenza di iscriversi a un corso di bioetica. E’ vero, mi dissi: solo così, restituito alla sua storia un cadavere non è più solo un cadavere. Da qui nasce il rispetto per l’altro, che viene meno quando lo si riduce a comparsa di esistenze altrui.

Le moderne scoperte, relative al DNA, profilano un recupero narrativo della medicina anche se tendono a togliere la parola per raccontarlo e interpretarlo all’uomo che ne è soggetto.

 Pensiamo anche alla ospedalizzazione dell’anziano in residenza protetta, privato dai suoi oggetti, quelli che ha raccolto durante la sua vita, ricolmi di affettività e ricordi, costretto a vivere in un ambiente asettico e funzionale solo rispetto all’igiene da mantenere in carenza di personale. Ma di questo ho già detto in altro articolo.

Pensiamo anche a come le città abbiano spesso progressivamente smarrito i due punti essenziali del narrare: il nascere e il morire, spesso relegati in questi luoghi off-limits che sono gli ospedali, nel caso di Finale, dove io vivo, addirittura fuori città.

E il discorso non vale solo per medicina e dintorni.

Pensiamo all’investigazione e alle indagini, che si valgono sempre più di prove di laboratorio e sempre meno della testimonianza dei fatti o al come  l’ansia punitiva prevalga su quella riparativa e prescinda dal risanare il tessuto biografico della vittima, cui non basta la punizione del reo.

E per converso, pensiamo al successo dell’omeopatia, rispondente proprio al bisogno di raccontare, o alla giustizia riparativa, tendente a sostituire alla pena pensata in astratto, una riparazione tendente ad agire creando positive confluenze tra le due biografie, quella dell’offeso e quella dell’aggressore.

A risanare narrativamente un tessuto sociale o storico lacerato.

Pensiamo all’esperienza del Sudafrica per quanto riguarda i delitti politici commessi durante l’apartheid, evitando sia la generalizzata punizione che la generalizzata amnistia, entrambe incapaci di produrre risanamento e costruttiva memoria ma solo insana rimozione del vissuto traumatico. 

Detto questo, torno all’Astor da cui mi sono solo temporaneamente allontanata.

Esistono pochi polmoni di narrazione collettiva in una città e certo il teatro è uno di questi, abbatterlo per costruirvi una coop non può non rivestire un significato simbolico oltraggioso: la vittoria dell’uomo consumista, e delle sue architetture e modalità espositive e appetitive, sull’uomo narrativo.

Le due cose non appaiono conciliabili, essendo la narrazione proprio quel filo che ci consente di salvarci dall’entropia dispersiva cui ci spinge il consumare.

E a questo proposito vale la pena di fare il rinviato affondo sulla tivù, spesso essa ci fornisce narrazione ma narrazione prostituita, destituita della sua dignità e ridotta a strumento per indurre al consumo. Non solo non appaga il bisogno narrativo ma lo strumentalizza: confonde creatività con finzione, stupefazione con scandalismo, fantasia con imbroglio  ed è, originariamente, operatrice di inganno e alienazione.

Ecco perché il rimpiazzo nasconde oltre al danno, comunque lo si motivi, la beffa e l’insulto.

Sappiamo bene, per averlo appreso da autorevoli maestri, che la città cresce attorno ai suoi simboli e non è bene sottovalutarne l’impatto.

Ma c’è di più, con incredulità ancora maggiore, Viola mi ha riferito che nel progetto Bofil è previsto un appartamento enorme con teatro privato, e ha commentato:

“Tolgono un teatro dove potevamo andare tutti e ne fanno costruire uno in cui potranno andare solo gli invitati del padrone di casa. Ma ha senso una cosa del genere?”.

E a questa domanda di adolescente che non ha ancora abdicato alla saggezza, credo che nulla vada aggiunto, almeno da parte mia.

 Gloria Bardi

   www.gloriabardi.blogspot.com