BIOPOLITICA

Lo Spirito Olimpico
Perché non lanciamo una nuova iniziativa, che appartenga al Terzo e al Quarto mondo, una Olimpiade dei diseredati, con specialità che da quelle parti sono discipline largamente praticate, come il salto triplo del pasto, il salto in aria sulla mina (soprattutto italiana, pare vada per la maggiore) o lo skeleton, quello vero…(in inglese vuol dire scheletro).

di GIULIO MAGNO

 

Ho guardato in televisione la diretta tv della cerimonia di apertura della ventesima olimpiade invernale a Torino, e mi ha colpito da subito la strana presenza di alcune delegazioni straniere, che non mi sarei mai aspettato di vedere sfilare tra le rappresentanze di atleti che avevo sempre visto in queste occasioni: il Kenia, l’Etiopia, il Senegal, il Porto Rico sono solo alcune di queste sparute delegazioni, spesso rappresentate da un solo atleta, che necessariamente faceva l’alfiere, e due o tre panciuti dirigenti del comitato olimpico locale.

Mi sono sembrate delle caricature, delle comparse spaesate di un gioco voluto per i paesi più ricchi, da essi gestito, con cifre e con sponsor da capogiro.

Ma quali sono gli aspetti di questo evento che interessano l’etica e più in particolare la biopolitica?

Il principale di questi è sicuramente la questione dell’allocazione delle risorse, che si divide in due livelli: il primo, più generale, riguarda il come ed il perché vengano spesi tanti soldi per delle manifestazioni sportive che di sportivo, oramai, hanno ben poco, in relazione ai problemi globali più importanti (sottosviluppo, superamento della questione dei brevetti farmaceutici, controllo dei conflitti locali).

Il secondo, più vicino perché oggettivamente constatabile con i nostri occhi (basta prendere il treno e andare a Torino) riguarda l’agire politico sul territorio, che, a partire dalle scelte dei siti sui quali si sarebbe abbattuto il peso dei cantieri olimpici, per passare all’analisi delle ricadute di tali opere sulla società nel suo complesso e, attraverso una comparazione con le possibili alternative, giunge a decidere per questa o per l’altra soluzione di spesa dei soldi che, ricordiamocelo, per la maggior parte sono di tutti noi.

Dei due miliardi e mezzo di euro che costituiscono il costo di queste Olimpiadi sotto la Mole, infatti, circa 1700 milioni sono pubblici, e ciò che preoccupa ed infastidisce è la completa separazione tra processi decisionali (chi decide ed approva un progetto di opera olimpica, e su quali principi) e la popolazione che si trova ad affrontare, finita la festa e gabbato lo santo, il problema dello “smaltimento” del “rifiuto olimpico”, cioè l’inevitabile inutilità di buona parte delle strutture costruite ad hoc, che non potranno essere facilmente gestite dalle comunità locali ad un regime di pubblico pagante remunerativo.

Se poi passiamo ad analizzare la città ospite dei giochi, la capitale delle Alpi, Torino, ci rendiamo conto di come molte delle promesse che hanno accompagnato l’avventura olimpica in realtà siano rimaste tali: il lavoro, soprattutto, non è arrivato in una città che da anni boccheggia, e che aveva visto in questo evento una possibilità di cogliere l’occasione giusta. Forse le manifestazioni dei cassintegrati torinesi avranno creato qualche disagio, ma sono state l’inevitabile cornice di una manifestazione che per sua stessa natura, ormai, costituisce più una vetrina per gli sponsor piuttosto che un appuntamento rispettoso del sacro fuoco di Olimpia.

Parlando poi dell’aspetto più squisitamente sportivo, nutro qualche perplessità sulla tendenza a far rientrare nel novero delle discipline olimpiche invernali sports come il curling, o lo skeleton. Il primo consiste nel lancio di un peso sul ghiaccio, verso un bersaglio, con altri due atleti (?) che spazzolano il percorso davanti allo stesso al fine di agevolarne la traiettoria (una specie di gioco probabilmente nato da qualche scommessa all’uscita di una taverna) mentre il secondo è la vecchia disciplina dello slittino, però fatta a testa in giù (ma allora nel  salto in alto, saltare di petto o di schiena avrebbe potuto dare origine a due diverse discipline?).

Per questo, forse, la critica che trovo sui giornali di giochi privati, fatti per il divertimento dei paesi ricchi, non è così infondata? Se così non fosse, potremmo aspettarci l’inserimento, tra le prossime discipline olimpiche, del lancio della caciotta di pecorino e dello sputacchione del seme di cocomero…

Lo spirito olimpico che si voleva salvaguardare è forse questo? Lo spettacolo a tutti i costi, purchè servisse da riempitivo ai vari sponsor, o giustificasse la spesa di un fiume di denaro? Per chi poi?

Ed è proprio qui è il punto che volevo sottoporvi: quelle sparute delegazioni africane, improbabili perché provenienti da paesi dove la neve non cade mai, (figuriamoci, non c’è nemmeno l’acqua da bere) risultano ai miei occhi più vere, più rispettose dello spirito olimpico delle foltissime e sponsorizzatissime delegazioni “ricche”.

Perché allora non lanciamo una nuova iniziativa, che appartenga al Terzo e al Quarto mondo, una Olimpiade dei diseredati, con specialità che da quelle parti sono discipline largamente praticate, come il salto triplo del pasto, il salto in aria sulla mina (soprattutto italiana, pare vada per la maggiore) o lo skeleton, quello vero…(in inglese vuol dire scheletro).

Si accettano sponsorizzazioni…

Alla prossima settimana

Giulio Magno