FOGLI MOBILI 

La rubrica di Gloria Bardi

 La circostanza è stata davvero divertente: ho augurato un 2006 da epicurei e ricevuto i ringraziamenti condizionati degli stoici. E non di uno soltanto. Da qui l’idea di un sondaggio che ha visto stravincere la Stoà sul Giardino, insomma la partita si è chiusa 89 a 60 per gli stoici.

Ho quindi chiesto a Fulvio Sguerso, primo dei miei corrispondenti, di preparare un testo in lode dello stoicismo mentre io stessa avrei scritto un’“apologia di Epicuro”.

Poi ho chiesto un intervento anche a Miserrimus, che dinanzi all’alternativa ha preferito, concedendosi un elegantissimo “fuori pista”, la terza opzione: gli scettici.

Quanto al mio compitino, eccolo di seguito, con la precisazione che letture personali dei grandi maestri del passato sono non solo legittime ma auspicabili, a dispetto d’ogni filologia, infatti “che c’è di più morto di un libro che languisce su uno scaffale? ma quando una mano, anche intenzionata ad essere fedifraga, lo leva e lo sfoglia, ecco, è già tornato a nuova vita”, e questo nonostante gli Epicurei pensassero che, di vita- ma per gli uomini- ve ne sia solo una. 

APOLOGIA DEGLI EPICUREI 

Se ho augurato un anno all’insegna di Epicuro è perché ho rintracciato in questo filosofo, esiliato dal grande filtro dell’etica romana e del cristianesimo medievale, passaggi di profonda umanità che possono fornire al nostro oggi, se non un “farmaco”, almeno un filo d’Arianna, un criterio di orientamento nei labirinti morali e esistenziali in cui ci stiamo dibattendo.

Più volte, nei miei interventi sull’etica e la politica nel loro convergere e nel loro diversificarsi, e in particolare sulla bioetica e la biopolitica oggi centrali, ho esortato, con la mia scarsa autorevolezza, a mettere al centro della considerazione etico-politica la sofferenza e, di conseguenza, il suo contrario (felicità, piacere, benessere, chance di vita buona) o perlomeno la riduzione di essa.

Credo che solo nell’identificazione del “minimo” (ridurre la sofferenza) si possa costruire convivenza umana, affidando i riferimenti di massima (ciò che dà senso globale alla vita) alle scelte dei singoli e dei gruppi in cui i singoli si riconoscono. 

Ma più ancora, il riferimento minimo consente di pensare a una comunità morale più allargata, inclusiva di tutti i viventi e di tutti gli esseri capaci di soffrire. 

Credo che, quali che siano i nostri assoluti, si debba sempre congiuntamente cospirare contro il dolore in un’etica della pietà e del piacere, in un’etica primaria della terra, dimensione empirica e comune, nella divergenza dei cieli a cui guardiamo.  

Insomma, credo che non si debba mai sacrificare il concreto all’astratto e in questo mi trovo in buona compagnia tra i maestri del pensiero, tra questi Epicuro, il quale pure si confrontava col problema della “dilatazione” del mondo (impero macedone) e della necessità di rintracciare, al minimo, la bussola dell’agire umano e nel contempo il criterio accomunante. 

E soprattutto, in Epicuro trovo rispetto per il dolore, per lo scandalo che il dolore rappresenta, che invece non trovo in tutte le forme di giustificazionismo o provvidenzialismo che la storia del pensiero ci ha via via propinate, da Eraclito agli Stoici ad Agostino a Spinoza a Leibniz ad Hegel. Ottimismi che, se sono, dopo averne subito la scossa, sopravvissuti  al terremoto di Lisbona, certo non sopravvivono ad Auschwitz e a tutte le Auschwitz disseminate sulla strada di quel reale che è tutto tranne che razionale.

“Il concetto di Dio dopo Auschwitz” di Jonas è un passaggio obbligato per la coscienza storica collettiva, dove, in una lettura che parte dall’interno stesso della tradizione ebraica, appare impossibile salvare assieme l’onnipotenza e la bontà di Dio.

Se Auschwitz è stata, allora  Dio o è buono o è onnipotente, entrambi in nessun modo. 

Questo, tanti secoli prima,  aveva detto proprio Epicuro, a partire dall’irriducibilità del male.

Il male esiste, quindi gli dèi o vogliono toglierlo ma non possono e sono quindi impotenti, cosa che non si addice al divino. O possono toglierlo ma non vogliono. Sono quindi invidiosi, cosa che non si addice al divino. O non vogliono né possono, con doppia contraddizione. O vogliono e possono, ma allora perché il male c’è? Quel “perché” mi seduce più delle risposte che ha collezionato nel tempo.  

Francamente preferisco l’innocenza degli dèi narcisisti di Epicuro, che vivono felici negli spazi tra i mondi e ignorano la nostra tribolata esistenza, alle divinità che posseggono la chiave che trasforma il male in bene, presente o venturo.

Certo, c’è una grande differenza tra gli dèi ignari e felici di Epicuro e il Dio dolente a cui, dopo Auschwitz, Jonas ha ritenuto di attribuire la bontà e rigettarne l’onnipotenza.

Ma, in un certo senso, per così dire “estetico”, l’Olimpo di Epicuro finisce per piacermi di più, per soddisfare maggiormente il bisogno di “leggerezza” che in me si congiunge, forse per senso del contrario, col sentimento del dolore. E non si tratta di esorcismo quanto di un modo per dire “no”, almeno io così lo percepisco: non amo in generale la mortificazione, non amo il senso di contrizione. Ben venga l’edonismo, purché sia capace di contestualizzarsi e capire che non si è mai felici a dispetto del mondo.  

Infine, trovo straordinario, oggi più che mai, l’invito alla riduzione delle dipendenze che ci pongono in balia dei nostri benefattori o malfattori.

In primis la paura della morte, in nome della quale da sempre si è istituito il potere.

Ed è con  giocolierismo, quasi infantile nella sua semplicità provocatoria, che Epicuro argomenta il fatto che non dobbiamo temere la morte “perché quando c’è lei non ci siamo noi, quando ci siamo noi non c’è lei e quando c’incontriamo non ce ne accorgiamo”. Nell’apparente ovvietà della frase, viene tagliato via l’ALDILA’, dalla cui gestione sono derivate le più intolleranti forme di dominio dell’uomo.

Mi convince molto meno l’abnegazione stoica; quel suicidio per eccesso di fede nella ragione che abita le cose, anche se originale e interessante, non mi è mai sembrato umanamente sostenibile. 

Ma ci sono anche altre dipendenze, di cui oggi il potere ci alimenta come polli in batteria: gli agi, le comodità, il cellulare e compagni, la politica di dominio fondata sul desiderio, leva fondamentale della società consumistica. Il potere fondato sull’espropriazione del desiderio. Anche qui Epicuro ci illumina, distinguendo desideri che vanno soddisfatti perché sono naturali e necessari, desideri che sono naturali ma non necessari e infine desideri che non sono né naturali né necessari: credo che la maggior parte delle nostre “esigenze” ricadano in quest’ultima cesta.

Malgrado il significato vulgato dell’attributo, l’epicureo è francescano nell’indicare la frugalità del pasto e delle abitudini di vita, dal momento che la dipendenza non è generatrice di serenità e ci rende schiavi di desideri che potremmo in futuro non poter soddisfare. Bella lezione per noi e i nostri figli! Tanto più credibile nelle pagine di un maestro che parla in nome della felicità e dell’assenza di dolore e non della mortificazione o del moralismo! 

Tutto il rispetto quindi per Zenone, Cleante, Epitteto, Seneca e compagni, ma preferirò sempre i maestri capaci di compassione e di ironia. Quelli che tra l’uomo e Dio (comunque si presenti) preferiscono l’uomo.

  ...CONTROLLA IL RISULTATO DEL SONDAGGIO

 Gloria Bardi

   www.gloriabardi.blogspot.com