Le origini dell’etica capitalista
Dalla data di inizio della II guerra del Golfo: trentamila, più o meno, e non ho ben capito se il computo escludesse o meno le vittime della guerriglia (o terrorismo, dipende da come la pensate, il risultato è lo stesso), l’ammontare dei morti iracheni.

di GIULIO MAGNO

 

Poco tempo fa mi è capitato di sentire alla televisione (o forse l’ho letto su di un quotidiano) il presidente degli Stati Uniti G.W. Bush mentre indicava l’ammontare dei morti iracheni, dalla data di inizio della II guerra del Golfo: trentamila, più o meno, e non ho ben capito se il computo escludesse o meno le vittime della guerriglia (o terrorismo, dipende da come la pensate, il risultato è lo stesso).

Tutti sereni, nessun commento di qualche rilevanza, meno che mai sui principali organi di informazione (se mi fosse sfuggito l’indignato articolo di qualche giornalista, sarei felice di circostanziare in questa stessa sede le mie doverose scuse).

Allora mi sono chiesto: ma come fa? E come fanno gli altri? Gli altri che ascoltano, senza dire neanche perbacco! Sembrava quasi che si stesse parlando di noccioline, o dei danni di qualche nubifragio in qualche remota località del centroamerica…non di trentamila morti (e sono senz’altro molti di più).

Poi ho subito pensato che, in passato, chi perdeva in battaglia veniva addirittura fatto schiavo, per lo meno in tempi remoti, e che poi, via via, con il crescere del rispetto della dignità umana nella coscienza planetaria (con i dovuti ma e dipende del caso), gli sconfitti potevano leccarsi le ferite senza dover subire ulteriori umiliazioni, se non quella di una resa incondizionata e una dipendenza commerciale ed economica  durevole nel tempo.

E qui mi sono bloccato. Quell’atteggiamento sfuggiva alle regole moderne di un rapporto tra vincitori e vinti, suonava stonato, nel terzo millennio. Sembrava di sentir parlare un capo di una tribù nomade ai tempi del crollo dell’impero romano, che poteva gioire di una vittoria senza prigionieri.

Ho cercato una soluzione, anche perché quel cinismo assomigliava molto, troppo, ad un altro atteggiamento distaccato, quello che accompagna le cifre dei morti per fame e malattie nel terzo mondo e non solo (quando vengono fornite, s’intende).

La soluzione ve la sottopongo, così come mi è balenata nella mente, e si tratta ovviamente di una possibile spiegazione, non certo l’unica, che ognuno di voi potrà confutare.

Un certo Max Weber, un sociologo tedesco, molto famoso, scrisse nel libro l’Etica protestante e lo spirito del capitalismo di una teoria che altri prima di lui avevano diversamente formulato, sottolineando la stretta connessione tra la Riforma ed il capitalismo moderno.

Il protestantesimo, diversamente dalla cultura cattolica, poneva un insieme di regole e precetti che risultavano più forti dei vincoli suggeriti dalla Chiesa di Roma, regole che risultavano totalizzanti e pervasive l’intera vita del credente;

 in particolar modo ciò risulta vero, secondo Weber, per le cd. sette protestanti ascetiche, e cioè il Calvinismo, il Metodismo, il Pietismo e le sette battiste.

Il Calvinismo in particolare viene illustrato come caratterizzato da tre capisaldi, dei quali il primo è la creazione del mondo che possiede significato solo in funzione della gloria divina ed ai suoi scopi, il secondo è che tali disegni rimangono del tutto sconosciuti all’uomo, ed il terzo, che qui più ci interessa, è la convinzione dell’esistenza di una predestinazione divina, che sarebbe indipendente dalle azioni del credente sulla terra, risalendo addirittura alla creazione della specie umana.

In poche parole, qualsiasi cosa tu faccia, se sei predestinato dal divino, vai all’inferno o in paradiso.

La contemporanea presenza, in tali religioni, di una cultura della vocazione professionale, cioè l’assegnazione di una alto valore etico al lavoro, strumento della gloria divina, portò i credenti, secondo il sociologo tedesco, a sviluppare un capitalismo che rifuggeva i godimenti della vita, poiché oziosi, e ad assegnare un valore sociale al successo negli affari economici.

Non a caso, nella cultura dominante d’oltreoceano, sui dollari vi è scritto “in God we trust” crediamo in Dio, (qui da noi sarebbe quantomeno impensabile), e non a caso una delle prime domande che ti pongono quando ti viene presentato qualcuno è “How much do you earn?” cioè, quanto guadagni? Non cosa fai, o per esempio, sei omosessuale, o l’orecchino ce l’hai perché fa strano?... 

E allora questa potrebbe essere la spiegazione. La valutazione della scomparsa di un numero così grande di persone, e allargandosi, la considerazione dei diseredati che muoiono di fame e stenti nei deserti dell’Africa non è così disumanamente limitata solo perché sono lontani e la distanza allenta la pietà: la visione del mondo legata alla produzione di ricchezza, all’adozione di quest’ultima grandezza quale unico metro di valutazione della vita umana ha inconsciamente ma inevitabilmente assegnato ad ognuno di noi una casellina dove stare, nell’enorme mosaico delle esistenze sul pianeta,  e la casellina sta più in basso se sei povero e non conti nulla, oppure sta più in alto se hai avuto maggior fortuna o se se stato più bravo e intraprendente.

Una valutazione del favore divino, quindi, cristallizzato nel successo economico dell’individuo, (o se vogliamo di quella determinata società, tema attuale in questi tempi di contrasti tra culture e religioni) che spiegherebbe un fenomeno che non esito a definire un clamoroso declassamento di un’intera parte del genere umano, che porta, come diretta conseguenza, a pensare dei meno fortunati come a qualcosa d’altro,  appartenenti ad un diverso genus.

Guardate che non è solo ignoranza, o disattenzione per qualcosa che non ci circonda da vicino, è un forma mentale, un planetario chissenefrega tanto a noi va molto meglio, in definitiva, un gesto di inconsapevole biopolitica.

Questa attività di giudizio interessa più o meno inconsciamente tutti noi, vittime di modelli comportamentali imposti, che ci fanno vivere insoddisfatti, eppure abbarbicati al nostro stile di vita. Basti pensare al turbamento dei nostri adolescenti  quando scoprono di non poter acquistare il cellulare di ultima generazione, il che implica un giudizio, all’interno del gruppo dei pari, cioè all’interno della loro “compagnia”; oppure, la frustrazione che può colpire ognuno di noi quando scopriamo che il vicino di casa riesce a guadagnare molto di più…non ci sentiamo forse, inconsciamente un po’ meno stimati da chi conosce entrambi? Non ci si sente scivolare lentamente verso un più basso punto di equilibrio nella scala sociale? 

La prova più facile da reperire della esistenza di questa operazione di declassamento dei più poveri compiuta dai più ricchi, è data dai frequenti discorsi che si odono provenire dalle bocche di quelli che spesso hanno ereditato senza colpo ferire la fabbrichetta del nonno e che giocano a fare gli imprenditori, sicuri del capitale accumulato e dei loro titoli prestigiosi acquistati in qualche esotica università privata, del tipo:”se quelli continuano a fare venti figli a famiglia, non avranno mai le risorse per sollevarsi dalla miseria” oppure “loro non hanno mai avuto la storia che abbiamo avuto noi, il loro Medioevo è adesso, e non ci possiamo fare gran chè”.

Poi leggiamo, è storia recente, che al Wto di Hong Kong, i paesi ricchi hanno promesso di smettere di aiutare le proprie agricolture (sovvenzionatissime) per favorire lo sviluppo di quelle dei paesi poveri, altrimenti strozzate da quella concorrenza drogata.

In cambio, udite udite, si è imposto a quelle fragili economie, sfruttate colonialmente per decenni, di “aprire” i propri mercati all’esterno, in vari settori tra i quali i servizi e l’acqua!

L’acqua! Il business del futuro. Previdenti, no? Tra l’altro si pretende il rispetto delle leggi di mercato dando in cambio qualcosa che non doveva assolutamente più esistere, in ossequio agli stessi principi, e cioè i sussidi alle agricolture “ricche”…è come se un monopolista si lamentasse della scarsa efficienza del mercato, perché privo di concorrenza!

Spesso la Storia, quella con la s maiuscola, ha uno spiccato senso ironico, e non mi meraviglierei troppo se il divario economico che ci separa dal resto del mondo, paragonabile ad un alto muro di cinta, crollasse più velocemente del previsto (perché è previsto): come i grandi latifondisti dell’impero romano in dissoluzione, di fronte all’incalzare delle orde barbariche, stempereremo forse le nostre ultime perle nel vino, in un tardivo e dissennato banchetto.

Alla prossima settimana

Giulio Magno 

p.s. per un maggiore approfondimento degli argomenti, si segnala il volume di Anthony Giddens “Capitalismo e teoria sociale”  a cura di Alberto Martinelli ed. Il Saggiatore 1991 A. Mondadori editore