La personalizzazione
spettacolare e mediatica, l’enfasi tribunizia e
martellante sul carisma vero o presunto del
leader indiscusso, il continuo appellarsi alla
“volontà del popolo italiano”, la polemica
incessante nei confronti di “questa sinistra
parolaia, inconcludente (vero, ahimè) e livorosa”, la guerra civile permanente contro
“certa” magistratura “politicizzata”, l’antiparlamenterismo
dichiarato e la mentalità antipolitica e
imprenditoriale del premier, l’esaltazione
retorica e propagandistica del “fare” e dell’
“agire” che contraddistinguerebbe l’attuale
governo, tutto questo a che cosa mira se
non alla trasformazione prima surrettizia, già
in parte avvenuta con il tacito consenso della
vituperata - in questo caso a regione –
sinistra, e poi “legale” della nostra
repubblica da parlamentare, come la concepirono
i Padri costituenti, a presidenziale, come la
sogna il Cavaliere imprenditore? E se fosse
questa, si potrebbe obiettare, la volontà della
“maggioranza degli italiani”? In fondo, se
questa maggioranza – peraltro relativa,
variabile e alquanto suggestionabile - ha votato
per tre volte il nome e il simbolo del Cavaliere
imprenditore, conoscendo, vogliamo supporre, i
suoi trascorsi e il suo conflitto d’interessi,
non sarà che il parlamentarismo non incontri poi
quel gran favore presso il “popolo sovrano”?
Certo è che la degenerazione della prima
Repubblica, già in atto assai prima che gli
avvisi di garanzia della magistratura
milanese (e la caduta del muro di Berlino) le
dessero il colpo di grazia, rappresentata dai
partiti del cosiddetto “arco
costituzionale” ha favorito l’emergere di
movimenti e partiti che erano rimasti fuori,
almeno in apparenza, dal Palazzo del potere e
dai “salotti buoni” della classe dirigente
economico-politica. Il fenomeno del
berlusconismo non si spiegherebbe senza la
stagione della “Milano da bere”, del rampantismo
clientelare e cortigiano, del connubio
sistematico tra affari e politica che ha
contrassegnato l’ascesa e la caduta di un leader
come Bettino Craxi, divenuto capro espiatorio di
un regime partitocratrico che nulla aveva più da
spartire - al di là delle cerimonie e dei
discorsi ufficiali - con gli ideali, anzi, con
le idee che ispirarono la nostra Costituzione
repubblicana. Inoltre, con il passaggio
plebiscitario dal proporzionale al
maggioritario, sia pure corretto, sembrava che
si fosse voltato pagina e che fosse cominciata
una nuova e più partecipata stagione
etico-politica della vita nazionale. Ma le
speranze di molti andarono presto deluse: la
cosiddetta “seconda Repubblica” non si è
rivelata, alla prova dei fatti, migliore della
prima. Dalle cronache di questi anni e di
questi giorni emerge che il connubio
affari-politica è divenuto addirittura più
pervasivo e capillare, e la corruzione ha
assunto proporzioni e modalità sardanapalesche.
Come è stato possibile? “Se l’intrallazzo
governa la seconda repubblica al pari della
prima, dobbiamo chiederci quali regole siano
sopravvissute con la medesima divisa dopo
Tangentopoli. Ma la risposta non è affatto
complicata, perché la corruzione galleggia
sempre in un sistema chiuso, oligarchico, senza
ricambio di classi dirigenti. Nuota a suo agio
dove il mare è opaco. Dove i controllori
coincidono con i controllati. Dove manca ogni
separazione fra economia e politica, così come
fra amministrazione e governo. Dove infine la
cultura del merito sta solo sui libri, perché
nella vita reale l’appartenenza trionfa sulla
competenza.” (Michele Ainis,
La Stampa
del 20/02). La cultura del merito che cos’è? Non
sa di aristocrazia, non certo di sangue ma di
sapienza e virtù? D’altra parte non è che tutti,
ma proprio tutti siano adatti a governare.
Platone riservava ai filosofi il governo della
sua Repubblica ideale, in quanto solo essi amano
soprattutto il Bene e, amandolo, non potrebbero
mancare di metterlo in opera. A beneficio di
tutti. Ma è facile obiettare che
la Repubblica platonica esiste
solo nei cieli dell’utopia. E allora? Neanche il
Regno di Dio è di questo mondo; diremo per
questo che non esiste? E’ una questione di fede,
è vero; ma volete toglierci anche la fede, oltre
che la speranza (e non parliamo nemmeno della
carità)?
Fulvio Sguerso
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