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PIIGS

 

  Marco Giacinto Pellifroni

 


M. G. Pellifroni

Sulle prime gli anglofoni coniarono il termine PIGS, che significa maiali, come acronimo di Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna. Poi si accorsero di aver dimenticato l’Italia; e così si fece spazio anche a lei, infilandola tra Irlanda e Grecia.

Quella dei PIIGS è una combriccola di cui non è un vanto far parte, anzi. Si tratta delle nazioni dell’Unione Europea più indebitate. Dove per indebitate si intende gravate da un debito pubblico: oggi non sono più tanto le banche ad avere la poco invidiabile qualifica di debitori, quanto gli Stati. Al di sopra dei quali non c’è più nulla, se non le sfere celesti, che però ci danno una mano solo nella fantasia dei credenti.

  Mi vedo qui costretto a tediare chi mi legge con la ripetizione ad nauseam del concetto che se c’è un debitore deve necessariamente esserci un creditore. Ergo, se i suddetti Stati sono afflitti da grossi debiti, va sottolineato che i presunti creditori sarebbero proprio gli enti che, in verità, agli stessi Stati non hanno erogato mai nulla, se non carta stampata: banconote; ottenendo in cambio titoli di Stato, gravati di interessi, che gli Stati poi rimborseranno, a scadenza, succhiandone l’equivalente in lavoro e servizi prodotti dai loro cittadini. E chi sono questi “creditori”? Semplice: la Banca Centrale Europea (BCE), i cui azionisti sono le maggiori banche dei vari Paesi dell’eurozona (più Inghilterra e Svezia). Cioè gli stessi soggetti che, per salvarsi dalla crisi tuttora in pieno corso, si sono rivolti a quegli Stati che oggi rischiano il default. Stati che, a loro volta, per ottenere dalla BCE le variopinte banconote, pagate a prezzo di facciata, stampano, come accennato, Buoni del Tesoro sotto diverse diciture (BOT, CCT, BTP, ecc.), garantiti dal lavoro dei propri cittadini, non bastando aver loro ripulite le tasche con tasse del 70% e oltre.

Gira e rigira, essendo sia gli Stati che le banche enti improduttivi, chi paga per tutti questi balletti da creditori a debitori e viceversa siamo noi. E cioè ancora, proprio coloro cui si negano sussidi (dallo Stato) e finanziamenti (dalle banche) nei momenti in cui ne avrebbero più bisogno, perché “non ci sono soldi” (che invece si trovano, e generosi, quando ci sono tangenti da prendere, come le recenti vicende della Protezione Civile stanno a dimostrare).

In sintesi, dunque, mentre banche e governi si scambiano a vicenda il berretto di creditore e debitore, con la tacita intesa che ad indossarlo ben fisso siamo noi cittadini, se alla fine chi deve pagare per tutti sono questi ultimi, sembrerebbe logico che almeno si dia loro la possibilità di farlo. Invece, a fronte di varie Agenzie delle Riscossioni (per non usare un termine che ci fa rima) che si aggirano fameliche per l’Italia (e l’Europa) a colpi di lettere minacciose e di successivi pignoramenti e confische, spingendo al si salvi chi può (come i miliardi dello scudo fiscale stanno a testimoniare), si toglie a quegli stessi cittadini la possibilità di produrre i redditi che il fisco mira a tassare. Risultato raggiunto impedendo alle aziende di lavorare, strangolandole con le tasse, e quindi allungando la lista dei disoccupati, ossia trasformando i produttori di ricchezza in altrettanti involontari parassiti dello Stato. E i parassiti, si sa, continuano a succhiare finché c’è sangue, per poi morire assieme all’organismo parassitato. Con una differenza, tuttavia: che i primi a morire sono gli individui sani –in questo caso chi le tasse è costretto a pagarle- e gli ultimi sono i soggetti in concorrenza con lo Stato nel sottrarre risorse a chi lavora: la criminalità organizzata, che non a caso è la prima industria nazionale, potendosi permettere di estorcere e insieme evadere il fisco. E magari rimpatriare, lavati, i soldi estorti, col modico obolo del 5%.


Se le suesposte considerazioni valgono per i PIIGS, non è che gli anglofoni che ci hanno così etichettati se la passino meglio. Né loro né altre nazioni che sono sempre passate per avanzate, e ben più di noi, possono ergersi a giudici: se Grecia e Italia hanno un debito pubblico intorno al 115% del PIL, l’Inghilterra gli tiene buona compagnia; per tacere degli USA, che veleggiano, assieme al Giappone, verso il 200% del PIL!

Se poi penetriamo all’interno degli USA, scopriamo che la sola California, ottava economia mondiale, è, sin dal 1994, in bancarotta; tanto da far persino considerare la blasfema ipotesi di una sua uscita dagli Stati Uniti (ma dovrebbero uscirne quasi tutti gli Stati, visto che solo un paio, con in testa il Nord Dakota*, sono in avanzo)!

  Qualche commentatore considera la posizione della California negli USA alla pari di quella odierna della Grecia dentro l’UE. Ambedue hanno vissuto ben al di sopra delle loro possibilità, basandosi sulla certezza di salvataggio da parte delle autorità centrali in caso di difficoltà finanziarie. Cosa che si è sinora verificata per la California, ma che comincia ad esser messa in dubbio per la Grecia; la quale infatti, a differenza della sua “gemella” americana, che ha sdegnosamente bocciato un disegno di legge per riportare le spese pazze della sua amministrazione pubblica entro limiti decenti, s’è detta disposta ad immani sacrifici pur di poter continuare a galleggiare sul transatlantico europeo. Se non ce la farà e verrà scaricata servirà da monito alle PIIS (senza la G); se invece verrà salvata, ci sono alte probabilità di successive richieste di salvataggi e conseguente tramonto del sogno europeo e della sua moneta unica. Che alcuni, peraltro, non vedono soltanto in chiave negativa.

La mesta conclusione di questi affanni finanziari è che la maggior parte delle nazioni “ricche” sono afflitte da ingenti debiti pubblici (fasulli, ma spacciati per reali), responsabili delle crescenti isole di povertà al loro interno, sotto forma di piccole e medie aziende che chiudono i battenti e grandi industrie costrette ad espellere addetti, col risultato di plotoni di ex lavoratori a carico dello Stato o delle famiglie, assieme agli ex autonomi-partite Iva; quindi, minor gettito fiscale proprio quando maggiormente servirebbe.

Causa prima di questo stato di cose è la caduta verticale del senso di responsabilità e di appartenenza sociale verificatosi negli ultimi decenni. Caduta che fa vacillare anche l’ipotesi di affidamento della finanza, in primis dell’emissione monetaria, dalle banche private, quale vige oggi, agli Stati. Che garanzia supplementare può mai fornire, per restare in Italia, uno Stato che tiene in Parlamento personaggi di appurata appartenenza a clan mafiosi, che pullula di individui dediti esclusivamente al proprio tornaconto e a quello degli amici o, peggio, di compari? Con una morale così sgretolata, con la corruzione dilagante  sia nel pubblico che nel privato, davvero non si sa più su chi poter contare. A chi affidare il compito di un risanamento? Persino la Chiesa, che dovrebbe essere l’organo più distaccato da queste bassezze terrene, ha la propria finanza affidata ad un IOR** che ha accumulato una serie di scandali non dissimile da quella delle grandi banche d’affari internazionali, Goldman Sachs in testa (da cui proviene, tra l’altro, chi dovrebbe essere il massimo custode della trasparenza del sistema bancario e monetario nazionale: il governatore di Bankitalia, Mario Draghi).

Non so quanti anni saranno necessari per uscire da questo circolo perverso. Certo è che saranno in molti, troppi, a pagare il prezzo di questo schema di Ponzi*** che vede Stati e banche scambiarsi reciprocamente il titolo di debitori, ben sapendo che, alla fine, i  pagatori finali sono gli unici che producono davvero ricchezza: i lavoratori. Se però questi smettono forzatamente di lavorare, lo Stato perderà la sua funzione primaria e si sprofonderà in sistemi di antica memoria dove ciascuno pensa per sé e contro tutti.

 

* V. la mia traduzione dell’articolo di Ellen Brown su Trucioli del 14/07/2009: https://www.truciolisavonesi.it/articoli/numero210/brown.htm  

** V. ad es. “Vaticano SpA”, di Gianluigi Nuzzi, Chiarelettere Ed., 2009.

*** V. https://www.truciolisavonesi.it/articoli/numero181/pellifroni.htm del 21/12/2008

 

 

Marco Giacinto Pellifroni                                                   21 febbraio 2010