Avevo già disdetto l’aereo
una volta, non mi sarebbe stato possibile
rinviare ancora e non sarebbe stato facile
tornare in questo remoto angolo di paradiso
posto alla fine del mondo.
Sarebbero potuti passare anni
e anni e il peso del rimorso mi avrebbe
sopraffatto fino a soffocarmi.
Respiro a pieni polmoni.
Sento il tuo profumo, il sibilo del vento
riaccende le tue risa; i ricordi riprendono
consistenza diventato immagini impalpabili ma
reali.
Ero un animale in gabbia
mentre la pioggia tamburellava incessante sulla
canadese. Toc toc toc.
Sonoro inusuale eppure così simile al
tocco delle tue dita che nervosamente
tamburellavano sulla scrivania di palissandro
del primario.
Tentavo invano di
rassicurarti cingendo l’altra tua mano tra le
mie.
Il medico sembrava non voler
più alzare lo sguardo dai fogli che teneva
davanti e il suo atteggiamento non faceva che
aumentare l’ansia in noi.
Attendevamo una risposta.
L’esito degli esami pareva cifrato. Era scritto
in una lingua incomprensibile ai profani ma il
movimento inconsulto del pomo d’Adamo del
chirurgo ne lasciava intuire la gravità.
Dopo l’intervento e mesi di
terapia solo i tuoi occhi erano rimasti
immutati. Il corpo era smagrito. La pelle aveva
perso ogni luminosità, pareva essersi
assottigliata e immane sembrava lo sforzo di
contenere tutte le tue ossa.
Ti avrei volentieri
raccontato bugie. Immaginare una guarigione
possibile sarebbe stato un modo efficace anche
per me per poter creare una speranza in cui
credere.
Tu invece avevi scelto di
sapere relegandomi a mero spettatore.
Ti accompagnavo dai medici. I
loro titoli erano sempre più altisonanti mentre
io mi sentivo sempre più impotente e tu apparivi
sempre più eterea.
Visita dopo visita i nostri
desideri si frantumavano. Cadevano al suolo come
cristalli e lì, frantumandosi, restavano.
Brandelli di figli, frammenti
di casa, schegge di posti da visitare insieme
divennero presto illusioni e via via da sogni si
tramutarono in inganni.
Un giorno mi dicesti che la
vita ti aveva semplicemente teso un trabocchetto
dal quale avresti potuto sottrarti in parte.
Nacque così il tuo desiderio e la mia promessa.
Il cielo, è tornato sereno e
le nere nubi sembrano voler affollare solo i
miei pensieri.
Volevi che le tue ceneri
fossero disperse sul picco più alto della
Patagonia da dove avrebbero potuto raggiungere
il mondo intero.
Io invece ho scoperto altre
vette.
Ho imparato a volare; a
librarmi nell’aria.
Così, amore mio, spero che
apprezzerai la mia ultima sorpresa.
La rincorsa; il salto.
Eccomi nel vuoto.
La corrente ascensionale ci
porta su, su in alto, nel cielo.
Ora tu sei in ogni dove.
Il vento ti disperde ma io,
un attimo appena, ti respiro e mi impregno di
te.
Di te, amore mio.
*Cristina
Ricci,
quarantun anni, abita a Spotorno, ha
pubblicato il suo primo romanzo (La
montagna d’acqua – ed. Il Filo, Roma),
un altro recentemente finito e tanta voglia di
scrivere.
A questo
“scarno”
curriculum si
può aggiungere
la
collaborazione
con il blog
dell’Udi
Savonese per il
quale Cristina
Ricci ha scritto
alcuni pezzi
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