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POLVERE

I racconti di Cristina Ricci*


Il cielo, dopo essere stato affollato per giorni e giorni da grigie nubi, è tornato  sereno.

Ho finalmente raggiunto la vetta. Bacio la roccia e lascio scivolare nella tasca un piccolo sasso; porterò nella vita di ogni giorno lo spirito della montagna; proprio come mi insegnasti tu.

Lo sguardo vaga nella trasparenza dell’aria e io mi sento finalmente libero. Libero come non mi capitava da tempo. Libero dall’incubo che mi ha perseguitato per anni: quello di non riuscire a mantenere la promessa che ti feci.

Ero un animale in gabbia mentre la pioggia cadeva incessante costringendomi ad una forzata inattività.

Avevo già disdetto l’aereo una volta, non mi sarebbe stato possibile rinviare ancora e non sarebbe stato facile tornare in questo remoto angolo di paradiso posto alla fine del mondo.

Sarebbero potuti passare anni e anni e il peso del rimorso mi avrebbe sopraffatto fino a soffocarmi.

Respiro a pieni polmoni. Sento il tuo profumo, il sibilo del vento riaccende le tue risa; i ricordi riprendono consistenza diventato immagini impalpabili ma reali.

Ero un animale in gabbia mentre la pioggia tamburellava incessante sulla canadese. Toc toc toc.  Sonoro inusuale eppure così simile al tocco delle tue dita che nervosamente tamburellavano sulla scrivania di palissandro del primario.

Tentavo invano di rassicurarti cingendo l’altra tua mano tra le mie.

Il medico sembrava non voler più alzare lo sguardo dai fogli che teneva davanti e il suo atteggiamento non faceva che aumentare l’ansia in noi.

Attendevamo una risposta. L’esito degli esami pareva cifrato. Era scritto in una lingua incomprensibile ai profani ma il movimento inconsulto del pomo d’Adamo del chirurgo ne lasciava intuire la gravità.

Dopo l’intervento e mesi di terapia solo i tuoi occhi erano rimasti immutati. Il corpo era smagrito. La pelle aveva perso ogni luminosità, pareva essersi assottigliata e immane sembrava lo sforzo di contenere tutte le tue ossa.

Ti avrei volentieri raccontato bugie. Immaginare una guarigione possibile sarebbe stato un modo efficace anche per me per poter creare una speranza in cui credere.

Tu invece avevi scelto di sapere relegandomi a mero spettatore.

Ti accompagnavo dai medici. I loro titoli erano sempre più altisonanti mentre io mi sentivo sempre più impotente e tu apparivi sempre più eterea.

Visita dopo visita i nostri desideri si frantumavano. Cadevano al suolo come cristalli e lì, frantumandosi, restavano.

Brandelli di figli, frammenti di casa, schegge di posti da visitare insieme divennero presto illusioni e via via da sogni si tramutarono in inganni.

Un giorno mi dicesti che la vita ti aveva semplicemente teso un trabocchetto dal quale avresti potuto sottrarti in parte. Nacque così il tuo desiderio e la mia promessa.

Il cielo, è tornato sereno e le nere nubi sembrano voler affollare solo i miei pensieri.

Volevi che le tue ceneri fossero disperse sul picco più alto della Patagonia da dove avrebbero potuto raggiungere il mondo intero.  

Io invece ho scoperto altre vette.

Ho imparato a volare; a librarmi nell’aria.

Così, amore mio, spero che apprezzerai la mia ultima sorpresa.

La rincorsa; il salto.

Eccomi nel vuoto.

La corrente ascensionale ci porta su, su in alto, nel cielo.

Ora tu sei in ogni dove.

Il vento ti disperde ma io, un attimo appena, ti respiro e mi impregno di te.

Di te, amore mio.

  

 *Cristina Ricci, quarantun anni, abita a Spotorno,  ha  pubblicato il suo primo romanzo (La montagna d’acqua – ed. Il Filo, Roma), un altro recentemente finito e tanta voglia di scrivere.

A questo “scarno” curriculum si può aggiungere la collaborazione con il blog dell’Udi Savonese per il quale Cristina Ricci ha scritto alcuni pezzi