Adesso
quell’abitudine è sostituita dalla mano magra e
rugosa che preme sulla mia bocca per soffocare
ogni inconscio grido che potrei emettere dopo
che l’essere svegliata di soprassalto è
diventata la routine.
Il mattino è ancora lontano;
allora perché mi hanno svegliata?
Il silenzio ossessivo degli
ultimi giorni sembra essersi spezzato.
La baracca è quasi vuota.
Non era così quando arrivai.
Ero poco più di un’adolescente. Fuori di qua
sono trascorsi solo pochi mesi ma la percezione,
al di qua del reticolato è diversa. Qui ogni ora
equivale ad un giorno. Ogni mese ad un anno. Il
tempo trascorre in un modo strano, diverso. È
difficile da spiegare, difficile come osservare
la sabbia della clessidra che sale verso l’alto
invece di scendere. Ogni attimo sembra non dover
finire mai. Appena arrivata avevo ancora le
forze. All’aria gelida del mattino, allineata
per l’appello contavo, dentro me, la durata
della tortura. Mille uno, mille due, mille tre,
era un buon metodo per trattenere con me
l’attenzione. Oggi l’esercizio è diventato
abitudine ma la fatica di resistere a quei
secondi è infinita. Forse io conto più
lentamente, o forse le forze mi stanno lasciando
ma ogni cosa, ogni singolo istante pare eterno,
l’unico tempo che corre è quello accorcia la
nostra vita. Gli anni della mia adolescenza, ad
esempio, sono trascorsi nell’attimo stesso in
cui il treno ha varcato il cancello. Il
convoglio è sobbalzato un istante appena, come
se volesse fermarsi per leggere quello che noi
avremmo decifrato solo più tardi “Arbeit macht
frei”.
Ricordo ancora il giorno che
arrivai. Ero poco più di un’adolescente. Ero
ancora umana, l’animo bestiale non si era ancora
risvegliato in me.
Il branco mi relegò nella
branda più bassa, nell’angolo più lontano dalla
stufa, se così si può definire la latta in cui
pigramente brucia la poca legna che riusciamo a
raccogliere rientrando dai campi.
Il pagliericcio era la prima
barriera che il gelo incontrava risalendo dal
terreno.
Il freddo si insinuava nel
legno prima e nel mio corpo poi. Mi teneva
sveglia. Desta fino rendere vigile e sempre
presente l’animo bestiale che giace in letargo
dentro noi.
Diventando animale riuscii,
tra graffi e morsi, giorno per giorno, morte
dopo morte, a raggiungere le brande più vicine
al tepore assicurandomi preziosi istanti di
sopravvivenza.
Il mattino è ancora lontano;
allora perché mi hanno svegliata?
Da tempo, quanto non so, la
nera brodaglia che chiamiamo cena è diventata
via via sempre più chiara fino a divenire
trasparente, semplice neve sciolta. Così sono
spariti anche i neri soldati, sempre meno; fino
a scomparire.
Il mattino è ancora lontano;
allora perché mi hanno svegliato?
Il terreno trema sotto i
nostri piedi e un rombo sordo rompe il silenzio
a cui oramai eravamo abituate.
I nostri occhi sono, più del
solito, pieni di paura.
Il mattino è ancora lontano;
allora perché mi hanno svegliato?
Vogliono che osservi fuori,
che racconti cosa accada.
Mi avvolgo nelle coperta.
Mi faccio coraggio.
Mi avvicino alla parete.
Non oso uscire.
Le unghie si spezzano mentre
tolgo il fango che sigilla gli spazi vuoti tra
il tavolato di assi.
Porto il dito graffiato alla
bocca e mi succhio in sangue ringraziando per
quella inattesa colazione.
Avvicino l’occhio alla
fessura.
Appoggio la fronte alle assi.
Sono ghiacciate.
Presto devo desistere.
Il dolore è troppo.
Ho bisogno di un altro
berretto.
Le mie compagne litigano;
nessuno vuole prestarmelo, ma sono quella che
vede meglio; alla fine la più curiosa si
sacrifica.
L’alba è ancora lontana, la
luna riverbera sulla neve.
All’orizzonte intravedo
ombre. Ombre che si avvicinano.
Carri armati che avanzano
abbattendo i reticolati.
La folata di vento gelido ci
colpisce.
Improvvisamente la porta si
spalanca.
Davanti a noi uomini con una
nuova divisa, con una nuova croce, rossa questa
volta.
Davanti a noi uomini con
nuovi sguardi.
Occhi grandi.
Occhi grandi che esprimono
ciò che noi non sappiamo più leggere.
Occhi che fanno ciò che non
sappiamo più fare.
Occhi che piangono.
*Cristina
Ricci,
quarantun anni,
abita a Spotorno,
ha
pubblicato il
suo primo
romanzo (La
montagna d’acqua
– ed. Il Filo,
Roma),
un altro
recentemente
finito e tanta
voglia di
scrivere.
A questo
“scarno”
curriculum si
può aggiungere
la
collaborazione
con il blog
dell’Udi
Savonese per il
quale Cristina
Ricci ha scritto
alcuni pezzi
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