ELEZIONI REGIONALI
LA POSTA IN PALIO
di
Franco Astengo
E' in atto una frenetica
corsa verso le candidature in vista delle
elezioni regionali che il prossimo 28 marzo
vedrà impegnati gli elettori di 13 regioni
italiane a statuto ordinario (mancheranno quelli
dell'Abruzzo, mandati al voto anticipatamente per ragioni non
propriamente “nobili”e del
Molise) che saranno chiamati alle
urne per scegliere i presidenti delle Regioni ed
i componenti dei consigli Regionali: nella
storia repubblicana sarà la nona volta, a
partire del 7 Giugno 1970, data in cui si
verificò la prima occasione di elezione diretta
dei Consigli Regionali, nel cui seno in allora
era successivamente eletto il Presidente della
Giunta; poi si passò, come abbiamo già
accennato, all'elezione diretta.
Diversa è la storia delle
regioni a statuto speciale
( Valle d'Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sicilia e
Sardegna), ma non è questa
l'occasione adatta per rievocarla. |
In questa occasione
intendiamo però sollevare due questioni: la
prima relativa alla valenza politica di questo
turno elettorale e all'interpretazione possibile
dei dati che sortiranno dalle urne; la seconda
riguardante la realtà della posta in
palio: ciò che, in effetti, rappresentano le
Regioni sul piano istituzionale, quali poteri
sono ad esse assegnati, come procede il
decentramento dello Stato, avviato in maniera
sensibile con la modifica del titolo V della
Costituzione avvenuta nel 2001 e attraverso le
leggi successive di applicazione, mentre è
ancora in vigenza la “legge-delega” sul
federalismo fiscale. Partiamo dal
primo punto, con un interrogativo: posso, le
elezioni regionali essere considerate, sul piano
strettamente politico, “elezioni di medio
termine”; capaci, cioè, attraverso il loro esito
di influenzare l'atteggiamento delle forze
politiche da qui alla fine della legislatura
parlamentare prevista per il 2013? Tecnicamente si
direbbe di no ( e torneremo sull'argomento nel
momento in cui tratteremo del conteggio dei
voti) perché si tratta, tra elezioni politiche
ed elezioni regionali di turni completamente
diversi nella loro struttura e nelle loro
finalità, fortemente influenzati nell'esito
possibile dalle particolarità locali e dal peso
delle candidature a Presidente (cogliamo
l'occasione a diffidare nell'uso del termine
“Governatore” del tutto improprio essendo la
nostra forma dello Stato, ancora assolutamente
unitaria).
Purtuttavia abbiamo già
avuto una occasione in cui le elezioni regionali
furono decisamente considerate elezioni di mezzo
termine: ci riferiamo al 2000, quando assai
incautamente
Massimo
D'Alema in quel momento Presidente
del Consiglio di un governo di centrosinistra
aveva dichiarato di legare le sorti del suo
Ministero a quelle dell'esito elettorale delle
regionali che, come ricorderete, fu sfavorevole
allo schieramento di maggioranza parlamentare di
quel periodo.
D'Alema
così si dimise, aprendo la strada al governo
Amato (era il terzo Presidente del Consiglio in
carica nella legislatura, e, alla fine il
centrosinistra scelse un quarto candidato,
nettamente sconfitto, alla fine, quando nel 2001
si votò per Camera e Senato). Difficile,
quindi, non considerare le elezioni regionali
del Marzo 2010 come provviste di una fortissima
valenza politica. Sorge, così,
l'interrogativo che già ci eravamo posti
poc'anzi: come saranno conteggiati i voti?
Le strade possibili sono
due: limitarci a registrare il risultato dei
duelli di vertice tra i candidati a Presidente
delle diverse regioni e di conseguenza misurare
la “temperatura politica” sulla base di quel
risultato (ad esempio, un risultato di 7-6 a
favore del centrosinistra direbbe che il
centrodestra è in rimonta su questo terreno e di
conseguenza, che mantiene intatte le possibilità
di successo anche quando sarà il momento delle
elezioni politiche: il meccanismo delle elezioni
di medio termine, in regime di alternanza,
vorrebbe la prevalenza dell'opposizione e di
conseguenza un risultato molto più netto a suo
favore: il mantenimento del governo di
Lazio, Puglia,
Calabria e Campania per il
centrosinistra darebbe davvero, se il computo
fosse riservato alle vittorie dei singoli
candidati alla Presidenza, il senso di un
possibile “cambio della guardia” a
Palazzo Chigi nel 2013). A nostro
giudizio, però, limitarsi a questo tipo di
computo sarebbe non vedere per intero l'esito
politico del risultato elettorale.
Riteniamo si debba
lavorare su due fronti: il conteggio dello
scarto possibile tra i due schieramenti raccolti
attorno a
PDL e PD;
se, indipendentemente dal numero dei Presidenti
eletti, lo scarto dovrebbe più o meno rimanere
inalterato a favore del centrodestra (ricordiamo
che pare essersi consolidato, dalle ultime
elezioni, uno scarto di quattro milioni di voti
tra l'alleanza
PDL-Lega e quella
PD-IdV: questa volta, però, mancherà la
Sicilia e si tratterà di una assenza importante
vista la complessa situazione politica
dell'Isola, foriera di esperimenti particolari)
allora è possibile pensare che anche la prossima
legislatura sarà governata in una certa
direzione (sicuramente le incognite non mancano,
a partire dalla possibile ricandidatura
dell'attuale Presidente del Consiglio e dal
fatto che il primo impegno del nuovo Parlamento
sarà quello dell'elezione del Capo dello Stato),
ma l'indirizzo dovrebbe essere tracciato con una
certa determinazione.
Se, invece, lo scarto
risultasse fortemente ridotto allora i giochi,
anche dal punto di vista di una
scomposizione/ricollocazione dell'intero sistema
( ruolo di parte del
PD,
dell'UDC, dell'ex-AN, tanto per intenderci) potrebbe anche
risultare aperti.
Di grande interesse
risulterà anche la dislocazione geografica del
voto: le candidature della
Lega al Nord, le forti frizioni
esistenti al Sud
nel
PD e più genericamente nel centrosinistra, laddove il partito
e la coalizione hanno colto, in passato, i
risultati più importanti, l'assenza di figure di
spicco dell'ex
Forza Italia come candidati, saranno
tutti elementi che concorreranno a formare il
quadro, all'interno del quale, verificare
davvero la possibilità che si recuperi un ruolo
“nazionale” dei partiti (pensiamo ovviamente a
PDL e PD),
oppure se la strada è ormai quella di “partiti
regionali”. Questo dunque,
tracciato, a grandi linee il quadro complessivo,
con un ulteriore interrogativo: quali
possibilità per la sinistra, esclusa nel 2008
dal Parlamento?
La sinistra, attualmente
divisa in due soggetti (SeL e
Federazione della Sinistra) dovrebbe
riuscire ad esprimere due elementi fondamentali:
unità ed autonomia.
La presentazione unitaria,
di una sola lista, in tutte le regioni
costituirebbe un elemento di grande importanza
se legato alla prospettiva di un nuovo soggetto
politico (qualcuno ricorderà l'Arcobaleno,
ma appare quasi pleonastico rammentare come ci
si trovi in una condizione completamente
diversa); l'autonomia può essere insieme
espressa attraverso i contenuti programmatici e
la qualità delle candidature, senza considerare
esaustiva la necessità di essere costretti dal
cappio del “fronteggiare la destra” comunque,
trangugiando qualsiasi amaro calice: amaro
calice lesivo, in molti casi, della stessa
dignità politica.
Soprattutto di fronte ad
un
PD la cui carenza di capacità
egemonica e la cui confusione strutturale
appaiono temi da richiedere una forte iniziativa
da sinistra, al fine di far valere valori, idee,
proposte. Un risultato,
ottenuto dalle liste di sinistra, che puntasse
deciso a creare le condizioni per il rientro in
Parlamento nel 2013, sarebbe auspicabile a
queste condizioni e non certo ricercando
divisioni artificiose e mezzucci sul terreno
delle alleanze per riciclare un personale
politico che, nel complesso, è stato
protagonista di un crollo epocale, dal quale è
necessario venire fuori. Passiamo alla
seconda parte del nostro discorso, rispondendo
ad un interrogativo: cosa sono le Regioni
nell'assetto istituzionale del Paese, nella sua
evoluzione storica.
In questo frangente
ricorderemo soltanto come i costituenti eletti
nel 1946 dovettero inventarsi un modello nuovo
di rapporti tra centro e periferia dopo la
stagione “totalitaria” del fascismo: un modello
che
pur non mettendo in discussione la natura
unitaria dello Stato, concedesse maggiore
autonomia a una rete di unità amministrative e
politiche locali. Questa esigenza
condusse a una forma alquanto innovativa e
“asimmetrica” di regionalismo, sulla quale
cercheremo di ritornare più avanti.
Recentemente, nel corso
dell'ultimo decennio del XX secolo, la classe
politica si è trovata di fronte a nuove sfide e,
soprattutto, a nuove aspettative circa la
“devoluzione”
dei poteri e delle risorse verso i livelli
regionali della politica.
Il termine “federalismo”, dopo una lunga
assenza, è prepotentemente rientrato nel
dizionario politico, riscuotendo un certo
successo presso l'opinione pubblica italiana. Nuove riforme e
nuovi strumenti sono comparsi in rapida
successione e i primi risultati di questo
processo di cambiamento sembrano comunque assai
rilevanti, anche se alla prima grande riforma
del 2001, che riguardava proprio il titolo V
della Costituzione (e quindi le regole in
materia di regioni ed enti locali), ha fatto poi
seguito il fallimento in via referendaria della
riforma della costituzione varata nel 2005. Non proporremo,
ovviamente, in questa sede una ricostruzione
dettagliata delle trasformazioni dei rapporti
centro – periferia in Italia, né risulta nelle
nostre possibilità offrire nuove interpretazioni
circa le scelte adottate e i ritardi che hanno
caratterizzato la concreta applicazione del
modello regionale. Basterà
ricordare come il passo decisivo verso
l'applicazione del modello di decentramento
regionale disegnato dalla Costituzione del 1948
dovette attendere vent'anni e fu l'approvazione
parlamentare delle norme (legge 108/1968) che
avrebbero consentito l'elezione delle assemblee
rappresentative nelle regioni “ordinarie”. Dopo di allora
il Parlamento riuscì a varare altre disposizioni
che determinarono un concreto spostamento di
facoltà e di risorse alle “nuove” istituzioni
regionali; la legge 281/ 1970 dispose il
trasferimento di risorse fiscali dallo stato
alle regioni, mentre una serie di competenze
normative degli enti pubblici territoriali fu
stabilita da vari decreti delegati negli anni
immediatamente seguenti. Le competenze
normative delle regioni furono poi messe in
chiaro da una legge apposita (382/1975) che
definì con precisione la natura della delega
legislativa attribuita alle regioni. Furono altresì
necessari nuovi atti, tra il 1975 ed il 1978,
per liberare le risorse umane, provenienti dalle
amministrazioni centrali, necessarie per il varo
dei primi programmi di azione regionali,
nell'ambito di politiche pubbliche complesse
come sanità e trasporti. Queste
innovazioni crearono, dunque, il nucleo
istituzionale e amministrativo del governo
regionale, ma evidentemente vi era bisogno di un
tempo ben più lungo e di una maggiore
disponibilità di risorse per sviluppare un
sistema efficiente e consolidato. Tra le
difficoltà emerse nell'implementazione del
regionalismo, una in particolare veniva
enfatizzata dai sostenitori di un processo più
deciso di devoluzione: la regionalizzazione del
1970 non aveva toccato il tema fondamentale del
raggiungimento di un'autonomia finanziaria degli
enti locali. Il potere di
bilancio dei governi regionali (ivi inclusi
quelli delle regioni a statuto speciale) era
rimasto fortemente condizionato da un concezione
top-down dei rapporti tra centro e periferia. La versione del
1948 dell'articolo 119 della costituzione
recitava del resto che l'autonomia finanziaria
delle regioni era subordinata alla disponibilità
delle risorse dello Stato, e soltanto nelle
regioni speciali tale subordinazione poteva
essere parzialmente superata da una più
flessibile conduzione dei rapporti tra livello
regionale e livello statale. In pratica
questo significava che, sino alla fine degli
anni'80, solo il 3% in media delle entrate dei
governi regionali era legato alla capacità delle
stesse regioni di imporre tasse e tariffe per i
servizi pubblici.
Tutto sommato, il rapporto
tra spese statali e spese regionali continuava a
essere molto sbilanciato a favore delle prime, e
quindi la “superiorità legislativa” delle
regioni rispetto agli altri enti locali finì
per non incidere più di tanto, nella
pratica giornaliera, per almeno 20 anni. Ma anche sul
piano dell'attività legislativa il rapporto tra
istituzioni centrali e regionali continuò, per
tutto quel periodo, a restare fortemente
sbilanciato essendo rimasto, innanzitutto, il
potere legislativo regionale di esclusiva natura
“concorrente”. Si rendeva così
necessario mettere mano ad una profonda riforma
dell'ordinamento, nel quadro complessivo della
riforma dell'intero sistema autonomistico
realizzata attraverso il varo della legge 142/90
e della modifica della legge elettorale per il
Comuni e le Province avvenuta con la legge
81/93, che prevede l'elezione diretta di Sindaci
e Presidenti. Tale finestra
d'opportunità si dischiuse, sia pure in modo un
po' avventuroso ed affrettato, nel 2001 quando,
quasi alla fine della legislatura la maggioranza
di centrosinistra decise di promuovere una legge
costituzionale con un'ampia riforma del titolo V
che, il referendum popolare, scattato al momento
che l'approvazione parlamentare non aveva avuto
la prevista maggioranza qualificata dei 2/3,
avrebbe convalidato nell'autunno di quell'anno. La riforma del
titolo V della Costituzione, introdotta dalla
legge costituzionale 3/2001 ha definito quello
che ad oggi è lo status quo del regionalismo in
Italia.
In breve, questo
intervento ha cercato di realizzare tre
obiettivi: ridefinire la distribuzione tra
poteri dello stato
e governi locali; modernizzare il quadro
complessivo della governance locale; rafforzare
il ruolo politico delle regioni, risolvendo
alcuni conflitti di attribuzione e introducendo
elementi più marcati di federalismo “dal basso”. La riscrittura
degli articoli 117 e 118 ha costituito
l'ossatura della riforma, protesa al
raggiungimento del primo obiettivo. L'articolo 117,
che nella nuova versione rovescia la struttura
originale, elenca adesso le materie nelle quali
lo stato centrale ha potere legislativo
esclusivo, e quelle soggette a potere
legislativo concorrente, per le quali cioè lo
stato può definire i principi fondamentali
mentre le regioni fissano la susseguente
legislazione ordinaria. La finalità di
una razionalizzazione complessiva del sistema di
governo locale ha portato anche alla nuova
definizione delle unità che compongono la
repubblica (articolo 114). Una novità
interessante è costituita dalle città
metropolitane, che hanno trovato una loro
dignità costituzionale, e si presentano come un
possibile ente intermedio tra municipalità e
regioni, che potrebbe sostituire una o più
province in particolari aree ad alta
urbanizzazione. Il processo di
costruzione di questo livello amministrativo è
ancora in definizione, ma alla sua conclusione
dovrebbero essere nove le città metropolitane in
Italia, con forme organizzative e funzioni
amministrative diverse, negoziate con gli enti
territoriali in esse comprese e sottoposte alla
ratifica del corpo elettorale dei territori
interessati.
Tutti gli enti
territoriali previsti dalla Costituzione possono
ora dotarsi di autonomia finanziaria e stabilire
le proprie tasse ed entrate, in accordo con i
principi di coordinamento della finanza pubblica
e con il quadro fiscale generale (articolo 119). Ricapitoliamo,
allora, gli effetti della riforma del 2001. In un senso, lo
stato centrale appare oggi davvero “svuotato”
dai provvedimenti legati a questa riforma, che
dunque ha attribuito alle regioni e ai governi
locali un ruolo importante nel ridefinire il
sistema politico. Un'innovazione
cruciale, sotto questo punto di vista, è stata
la soppressione del sistema dei controlli
esercitati dai commissari di governo, pratica
che in passato aveva costituito il metodo
principale per proteggere lo stato centrale e le
sue prerogative dall'azione legislativa delle
regioni. Nel quadro
scaturito dopo la riforma lo stato può
semplicemente ricorrere di fronte alla Corte
Costituzionale impugnando un atto di un dato
ordinamento regionale, senza poter pretendere la
sospensione della sua applicazione.
In conclusione,
elenchiamo, allora le competenze normativa
affidate esclusivamente alla Regioni:
Polizia amministrativa locale;
Artigianato; Industria; Commercio e mercati;
caccia e pesca; formazione professionale;
assistenza sociale e servizi sociali,grandi reti
viarie; urbanistica; trasporti locali;
acquedotti e lavori pubblici di interesse
regionale; organizzazione regionale; finanza
locale e regionale.
Savona, 15 Gennaio 2010
Franco Astengo
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