versione stampabile FUOCO SUI CC
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M. G. Pellifroni |
All’interno del gran polverone che il
caso Marrazzo ha sollevato vorrei qui spostare il fuoco dal suo
protagonista agli esecutori del blitz, perpetrato sotto mentite
spoglie da quattro carabinieri fuori servizio. |
Questa categoria è enorme
e in continua crescita, così come l’arroganza e
la certezza, o almeno la sensazione, di impunità
che informa ogni loro comportamento. Al già
lungo elenco di inquisitori pubblici, il tam-tam
della sicurezza, che ci assilla dall’11
settembre Ma limitiamoci ai vigilantes
pubblici, che spaziano dai vigili urbani ai
poliziotti, dai carabinieri alle guardie di
finanza ecc., in un variegato dispiegamento di
divise multicolori. Ecco: le divise. Nell’atto
stesso di indossarle un cittadino comune si
sente investito di un grado superiore rispetto a
tutti gli altri “in borghese” e comincia a
guardare il mondo dall’alto in basso,
soprattutto a causa del rispetto, spesso della
deferenza, con cui tutti si rivolgono a lui in
quanto espressione del pubblico potere. Da
questo momento in poi, chi indossa la divisa
tiene in mano la capacità, e non di rado
l’arbitrio, di infliggere ai “laici” sanzioni di
ogni genere, di grado via via più rovinoso per
il presunto colpevole di infrazioni ai codici
civile o penale, il cui numero è peraltro in
costante lievitazione. Si innesca così un meccanismo
psicologico che porta gli uomini in divisa a
sentirsi una casta, sia pure in scala ridotta;
il che li porta ad instaurare una sorta di
solidarietà, spesso complicità, nei confronti di
tutti coloro che indossano una divisa quale che
sia. D’altronde, se sorgono conflitti che
sfociano in un tribunale, le premesse sono
sempre a loro vantaggio, anche grazie
all’allargamento ai giudici stessi del
sentimento di appartenenza alla classe
inquisitoria, cosicché la parola di un vigilante
gode di ben maggiore credibilità rispetto a
quella di chi in quel momento recita la parte
dell’accusato, magari di aver reagito
verbalmente a provocazioni. Certo, il reato di
oltraggio a pubblico ufficiale è stato
depennato, dal codice, ma non dalla psicologia
di chi è chiamato ad ascoltare testimonianze e a
produrre sentenze in base a prove verbali
anziché documentali, basandosi quindi su
impressioni di colpevolezza, anziché su fatti
comprovati: la sua Parola contro la tua. Una
situazione spesso sfruttata da chi, forte della
sua maggior credibilità, fornisce versioni
sfalsate dei fatti per trarne vantaggio, sotto
forma di risarcimento danni “morali”. |
Nella trasmissione di Anno
Zero sul caso Marrazzo le parole più incisive, e
più prossime alla realtà, non sono uscite dalla
bocca dei politici e giornalisti ivi convocati,
bensì dal trans, che ha fornito uno spaccato
molto credibile della realtà che si vive in
certi ambienti. Parole confermate dai servizi
video dai quali è emersa la prassi consolidata
di un gioco delle parti, tra “guardie e ladri”,
in cui alla fine la legalità evapora e vengono a
instaurarsi tacite regole di convivenza
(analoghe alle regole comportamentali tra
cacciatori di immagini, agenzie fotografiche e
case editoriali, tratteggiate da Fabrizio
Corona). Così come è emerso che l’irruzione dei
falsi CC nell’appartamento del trans aveva
modalità ben poco dissimili da quelle applicate
normalmente; per cui chi indossa una divisa
tende mentalmente a indossarla anche fuori
orario, nel bene o nel male, in una fuorviante
confusione di ruoli. |
A fare le spese in questo
piccolo o grande gioco delle parti è il povero
cittadino, al quale vengono estesi metodi e
preconcetti in uso verso i delinquenti abituali,
o perlomeno verso quanti vivono ai margini della
legge, come, nel nostro caso, tutta la galassia
della prostituzione, in qualunque forma attuata.
Penso ad es. a quanti vengono “legalmente”
fotografati mentre abbordano una prostituta,
donna o trans che sia, per poi venire multati o,
peggio, denunciati, sconvolgendo magari per
sempre la loro vita familiare.
Il caso Marrazzo si
differenzia da altri, in quanto il sesso
praticato era considerato dallo stesso Marrazzo
immundus,
tanto da portarlo al grave sconquasso
psicofisico da lui stesso denunciato, alla
vergogna, alle dimissioni, richieste anche dai
suoi benpensanti compagni di partito. Eppure,
l’unico sesso riconosciuto come “immondo” dalla
nostra società è quello di pedofilia, in quanto
macchiato di doppia tara: l’essere l’oggetto di
abuso non consenziente e minorenne. Quanto al
sesso con un trans, c’è poca differenza da
quello omosessuale, ormai in larga parte
accettato; o perlomeno molto più estesamente
accettato rispetto a soli due o tre decenni fa:
basti pensare a quanti, ormai senza imbarazzo,
si dichiarano bi-sex . Nel trans cambia solo il
trucco e l’abbigliamento; con l’attenuante,
anche verso se stessi, di andare dopo tutto con
una “donna”, pur con qualche attributo in
più. Certi trans, poi, sono così belli/e, come
ad es. l’”esule” dell’intervista, che si fatica
a non esserne attratti al pari di una donna
vera. Insomma, la vicenda Marrazzo non sembra
poi così sconvolgente come la si è voluta
rappresentare; lo è semmai per lo squallore
dell’ambiente e la davvero scarsa avvenenza
delle sue frequentatrici. Ma l’attrazione
sessuale, si sa, spesso ignora l’estetica.
Sono semmai le “forze
dell’ordine” che hanno collezionato l’ennesima
brutta figura, dal 1992 ai fatti del G8 di
Genova del 2001 via via fino al recente
pestaggio a morte di Stefano Cucchi, arrestato
dai CC, consegnato alla polizia penitenziaria e
poi “negato” alla sua famiglia fino alla
consegna della salma. Anni costellati anche di
atti di brutalità nei confronti di immigrati. E
si ha l’impressione che i fatti che arrivano
alla cronaca giornalistica o televisiva siano
solo la punta dell’iceberg, vista la facilità
con cui i malcapitati possono venire zittiti,
ancor più se stranieri, a causa del loro stato
di inferiorità, persino più infimo di quello di
tutti noi cittadini “normali”. C’è da sperare che questi
ripetuti episodi di sopraffazione (l’ultimo
sotto mentite spoglie, ma a quanto è emerso non
così lontano dalla prassi reale), aprano le
porte ad un futuro in cui chiunque venga
giudicato in base agli atti compiuti e che
nessuna divisa possa conferirgli l’immunità, ma
goda della stessa presunzione di innocenza che
solo formalmente vale oggi per tutti. Insomma
che non si estenda lo spirito di Guantanamo e di
Abu Grabi ai patrii tribunali e
penitenziari. Marco Giacinto
Pellifroni
1° novembre 2009
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