TRUCIOLI SAVONESI
spazio di riflessione per Savona e dintorni
Odissea
dall'ultimo tabulato stampato dal Medcom. "Io
non te ne darei più di sessantacinque." * Questo mi aveva detto il mio amico medico
giorni fa. Le sue parole continuano a risuonarmi dentro.
Chissà poi perché. Nulla di cui dovermi preoccupare, anzi. Però quella
frase rimbalzava e rimbalza dentro come la pallina di un flipper che fa
di tutto per non finire fuori gioco. Anche per me il non essere ingoiato dalla buca
è lo scopo ultimo di quel rimbalzare, la stessa forza che mi spinge
avanti. Settant’anni e ancora faccio di tutto per
allontanare l’inevitabile “Game over”. “Io non te ne darei più di sessantacinque” e
come dargli torto? Per tenere la pallina in gioco il più a lungo
possibile mi sono imposto da anni un regime salutistico. Stop al fumo,
all’abituale whisky dopo cena e via libera ad una dieta povera di grassi
condita da quotidiane passeggiate a passo veloce. La palestra quella no,
troppo difficile per il mio orgoglio sopportare il confronto con giovani
corpi. Un’umiliazione intollerabile per il mio ego che tuttavia si
sottopone a faticose sedute casalinghe con la panca ed i pesi che ho
sistemato in quel che una volta era lo studio. Quelle che anni fa erano
sembrate rinunce si sono trasformate in abitudini di vita. I risultati
di quelle fatiche si sono ben presto visti. Il grasso addominale si è
sciolto pian piano e oggi il mio fisico asciutto fa invidia anche a chi
è molto più giovane di me. Io invece invidio la loro età, il tempo che
hanno a disposizione e che per me, nel bilancio della vita, è soltanto
un passivo. È stata infatti, la mia, una scelta
dettata non tanto dal buon senso quanto dalla voglia di recuperare
attimi, giorni e magari addirittura anni dopo aver visto la propria vita
crollare al primo soffio proprio come i castelli di carte che, da
bambino, costruivo per ingannare il tempo e la solitudine. La vita ha subito un brusco cambiamento il
giorno in cui lei se n’era andata. Poche parole erano bastate per farmi
capire che, senza rendermene conto, la donna amata fosse svanita sotto i
miei quotidiani sguardi fino a divenire un’estranea. Proprio come i
figli che giorno dopo giorno, crescendo sotto i nostri occhi si erano
tramutati in giovani adulti scalzando dalla mente persino il ricordo dei
bambini che furono. Sono sempre stato un uomo orgoglioso, questo lo
ammetto, ma non un uomo ostinato, fermo sempre e comunque nelle sue
posizioni. Se dicessi di non aver sofferto dalla
volontaria assenza di Maia direi una bugia; ma lo farei anche se
ammettessi di aver patito per la sua mancanza. Così ho passato i primi mesi della mia nuova
vita da scapolo, single è per me un termine privo di significato,
dicevo, ho passato quei mesi assorbito dall’incombenza di nuovi compiti,
un poco astrusi, come l’utilizzo di un elettrodomestico di cui ben
conoscevo la meccanica ma di cui raramente avevo sperimentato l’uso. Ho passato i primi mesi della mia nuova vita da
scapolo assorbito dall’incombenza di nuovi compiti e dalla riflessione
di quanto Maia fosse ormai divenuta un’abitudine nella mia esistenza e
non più una gioia. Sono un uomo orgoglioso dicevo, ma non fermo
sempre e comunque nelle sue posizioni. Posso dire di essere un uomo diverso da quello
che ero, un uomo migliore di quello che Maia ha lasciato cinque anni fa,
un uomo cambiato perché, nonostante il mio orgoglio, ho ammesso che, se
Maia è andata via, anch’io per lei avevo smesso di essere una gioia e mi
ero trasformato in qualcos’altro. Nelle mie insonni notti questo è il tormento
che più mi assilla. Cosa ero diventato io per Maia? Cosa, per spingerla
lontano da me? Quando ho smesso di essere gioia? Ci penso e ci ripenso,
notte dopo notte. Ci penso e ci ripenso. Notte dopo notte e ancora non capisco.
Mi pare di essere sempre stato me stesso, di
essere, addirittura, lo stesso di un tempo. Di essermi attenuto ai miei compiti, di essere
stato un buon padre, di aver fatto tutto come promesso… come promesso
quella domenica dal cielo sereno di tanti anni fa. Eppure qualcosa mi devo essere perso se tu,
Maia, cinque anni fa, hai pronunciato quella frase e sei andata via.
Uscita. Uscita dalla nostra casa. Uscita, ma non dalla mia vita. Ho ricercato le foto del nostro matrimonio. Sono ormai stinte, sbiadite. Sbiadite come ormai, devo ammetterlo nonostante
l’orgoglio, sono anch’io. Stinto e sbiadito nonostante il mio invidiabile
fisico e le mie eccellenti analisi. Stinto e sbiadito nonostante il tenue colore
che la voglia di recuperare questi cinque anni passati stende sulla mia
esistenza. Stinto e sbiadito nonostante il tenue colore
che la voglia di vivere stende sulla mia esistenza. Colore che si propaga sui miei pomeriggi al
circolo, sulle mie serate al dancing con nuove amicizie femminili.
Colore che si accende un poco quando la mia
risata risuona ancora argentina. Ho ricercato le foto del nostro matrimonio. Speravo di trovare lì la risposta alle mie
notturne domande. Ho trovato invece solo il riflesso di ciò che
eravamo. Ho visto due ragazzi. Due giovani che potrebbero anche essere i
nostri figli. I figli di ciò che siamo oggi. Ho visto due ragazzi, i loro sogni, e la strada
che hanno percorso. Ti ho rivisto Maia, ho rivisto i tuoi occhi
limpidi, il tuo sorriso pieno di promesse. Ho sentito ancora la fragilità della tua mano
stretta nella mia. Ho sentito il suo tepore e un’improvvisa
dolcezza ha scaldato il mio cuore oggi come allora. Ho ricercato le foto del nostro matrimonio. Sono ormai stinte, sbiadite ma non è sfumato in
me l’amore che ho provato per te. Per te Maia, per te ragazza dagli occhi limpidi
che ancora inseguo. Per te Maia, per te ragazza che era gioia e che
non sapevo potesse divenire abitudine. *incipit di Arthur C. Clarke
(1917-2008) 2061: Odissea tre
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