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I racconti di Cristina Ricci

Quattro colpi in faccia e poi più niente.


 Se la distanza tra noi fosse stato abissale come lontani erano i nostri mondi avrei visto prima il lampo, poi avrei udito lo sparo deflagrare, poi il dolore. Un dolore così assoluto che cade in se stesso e si annulla, come la luce in un buco nero.

Stesa a terra non ho più visto le altre luci, e da sempre più distante ho avvertito quei rombi.

Tuoni lontani, presagio di tempesta. Tuoni che mi avevano spinto a rifugiarmi in quel bar dove t’incontrai tempo fa

Diluviava. Un acquazzone estivo improvviso che mi aveva inzuppato da capo a piedi.

 

I capelli incollati al volto nulla più avevano dell’elaborata acconciatura.

I vestiti aderivano al mio corpo mostrandomi per quella che ero, ed io tentavo di scostarli con innocente pudore

Ogni passo un supplizio con quel ciak ciak che le due ranocchie gracchiavano dentro le scarpe.

Era bastato così poco quel giorno a scaldarmi; era bastato il gesto gentile di uno sconosciuto che mi porgeva un colorato asciugamano “Avevo pensato di andare al mare”.

Poi un caffè, poi un incontro, un appuntamento una cena e poi altro e altro ancora. Fino a quei quattro colpi in faccia.

Sono tornata da te anche oggi, nonostante tutto. Sono tornata credendo di trovare ancora quella luce che illuminava i tuoi occhi quando si fondevano con i miei.

Sono tornata da te ma non ti ho trovato più. Davanti avevo un altro, un estraneo che tanto mi aveva spaventato in passato, uno sconosciuto che mi aveva fatto fuggire lontano da te.

Così, quando mi ha, quanto mi hai puntato la pistola addosso ho capito che nulla più sarebbe tornato com’era; che il destino avrebbe continuato a divenire.

Davanti a quella pistola ho alzato le braccia, mi ci sono nascosta dietro come se quell’inutile protezione potesse salvarmi.

Quattro colpi. Quattro detonazioni che hanno frantumato il mio viso; che l’hanno fatto esplodere.

Quattro spari che mi hanno reso un’orrenda e irriconoscibile maschera.

Quattro mazzate che mi hanno privata della dignità; della mia identità.

Ora sono solo un caso da risolvere, una pratica, un numero.

In questa calda giornata estiva il temporale è scoppiato all’improvviso.

Le mosche banchettano con quello che ero.

Svolazzano intorno a me. Svolazzano scacciate da altri uomini, altri estranei che svolazzano mentre io non sono più io.

Svolazzano ed io, che non ho più occhi e coscienza per vedermi sento in loro l’orrore che mi hai fatto.

Lo vedo quell’uomo fermo sulla soglia, lo sento “Cazzo, proprio a me il turno oggi!”

Lo sento mentre mi gira attorno con circospezione.

Lo sento mentre fa i rilievi i rito.

Sono lì quando fruga nelle mie cose per capire chi ero, per dare un senso all’oggi, a quel che è accaduto.

Lo sento mentre mi svolazza attorno facendosi coraggio, mentre scaccia lo schifo.

Lo sento mentre cammina e i suoi passi si fanno sempre più pesante e le sue spalle si incurvano un poco caricandosi del peso di ciò che ero e che non sarò più.

Lo conosco ormai, è un caro vecchio amico.

Vorrei raggiungerlo, posare una mano sulla sua spalla, spiegargli tante cose. Vorrei parlargli di me, di noi, del nostro amore nato per caso, a causa di un temporale.

Vorrei chiedergli, quasi implorarlo, di levarsi la maschera. Vorrei che sciogliesse il nodo che sente in gola, che lasciasse scorrere quella lacrima di pietà che si ostina a ricacciare indietro, che vomitasse tutta la bile che ha dentro e che, uscendo da qua, ritrovasse tutto quel che ha perso lungo il suo cammino e ricominciasse a vivere e ad amare.

Se capisse tutto questo la mia morte acquisterebbe un senso e non sarei  solo quattro colpi in faccia e poi più niente.

 

*Cristina Ricci, quarantun anni, abita a Spotorno,  ha  pubblicato il suo primo romanzo (La montagna d’acqua – ed. Il Filo, Roma), un altro recentemente finito e tanta voglia di scrivere.

A questo “scarno” curriculum si può aggiungere la collaborazione con il blog dell’Udi Savonese per il quale Cristina Ricci ha scritto alcuni pezzi